“Amici, liguri, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Claudio, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Claudio. (Shakespeare, dopo le dimissioni di Scajola date il 4 luglio 2010 per l’affare Biagi e la sua morte politica)” ****

 

 

 

****Otto anni fa, il 16 novembre 2010, scrivevo queste cose sull’Eco della Riviera e oggi che è sindaco di Imperia le confermo anche nelle virgole.

 

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Il precipitare della situazione politica e l’inevitabile crisi di Governo al buio, anzi al nero di seppia, spalancano scenari imprevedibili a livello nazionale e contribuiscono non poco ad avvelenare l’atmosfera e a inasprire i rapporti sia a Roma che in periferia.

 

Anche nel nostro collegio elettorale non passa giorno che non irrompa nel saloon un pistolero a sparare sul povero pianista che dal 4 maggio di quest’anno ha smesso di strimpellare e non conduce più le danze.

 

“Le mie dimissioni permetteranno al Governo di andare avanti” aveva dichiarato quel giorno alzando le mani dalla tastiera e da allora si è abbattuta una specie di maledizione su Berlusconi e sulla sua orchestra e sono cominciati i guai.

 

Qui da noi l’ultimo cow-boy è un fico nel cavagno dell’Eco della Riviera che sotto lo pseudonimo di Conte Dracula (avv. Rovere. N.d.r.) la settimana scorsa ha sparacchiato su Scajola, sull’ancien regime DC e su chi lo rimpiange, refrattario a quella struggente nostalgia che invece io provo ogni mattina svegliandomi al saluto della mia dolce amica, la “saudade”.

 

Saudade é amar um passado que ainda não passou, é recusar um presente que nos machuca, é não ver o futuro que nos convida...” sono le parole di Pablo Neruda che mi danno l’ineffabile buongiorno.

 

La DC, un amore passato che non è passato, che rifiuta dolorosi compromessi e non intravede all’orizzonte un accogliente futuro, questo il mio personale adattamento di quei versi che l’”ultima raffica di Salò” trasbordata sul carroccio di Alberto Da Giussano non è in grado di capire.

 

Certo non per sua immaturità politica o per sordità morale, questo no, mi sento di escluderlo conoscendo il personaggio e la sua famiglia che sono un pezzo importante della mia “saudade”, ma semplicemente per una forma mentis cinica e iconoclasta acquisita da grande abbeverandosi di quel sangue laico e borghese che gli ha fatto dimenticare troppo in fretta il biberon pedagogico degli Scolopi da lui succhiato al Calasanzio con Piercamillo Davigo.

 

Mi si perdonerà questa esplosione di orgoglio democristiano, ma a provocarla è stato un passaggio del discorso di Fini che ha fatto da detonatore quando a Bastia Umbra gli ho sentito dire : “Ho rimpianto, e credo che anche gli italiani lo abbiano, del rigore, dello stile, del comportamento come quelli di Moro, di Berlinguer, di Almirante, di La Malfa. La prima Repubblica era anche in queste personalità che non si sarebbero mai permesse di trovare ridicole giustificazioni a ciò che non può essere giustificato”.

 

Perché, caro il mio vampiro, Scajola - si parva licet componere magnis – dimettendosi si è comportato con quell’identico stile che il presidente della Camera rimpiange.

 

Con la compostezza e la dignità di un servitore dello Stato che fa un passo indietro, come altre volte ha fatto in passato, per non confondere la dignità delle istituzioni con le miserie degli uomini che pro tempore le rappresentano.

 

E per me, come ha dimostrato l’inchiesta di Perugia e come dimostrerà quella di Imperia, le miserie non erano le sue ma quelle prodotte a getto continuo dalle fabbriche del fango, che dal 1994 lavorano per imbrattare Berlusconi.

 

E sappiamo bene che Scajola fin dalla prima discesa in campo del Cavaliere è sempre stato per lui un solido punto di appoggio e garanzia di una lealtà assoluta.

 

Quelle che ancora oggi un nugolo di sputtanatori di tutte le risme e colori continua a considerare giustificazioni ridicole diventeranno ben presto verità sostanziali e legali e se l’uomo finora ha taciuto lo ha fatto non perché è stato sorpreso con le mani nel sacco ma perché attende con serenità e fiducia di uscire dal sacco nel quale qualcuno lo ha infilato. 

 

Dopo aver difeso per l’ennesima volta l’onore della persona con una presa di posizione d’ufficio che sarà anche superflua e ovviamente non richiesta ma che considero doverosa e tutt’altro che “mission impossible”, ora più che mai sento, invece, il dovere di sostenere l’accusa nel processo all‘uomo politico.

 

E non nei comodi panni di un PM col codice nel cavagno ma in quelli molto più impegnativi della Parte Civile a tutela di un “orgoglio DC” che è diventata merce rara e sempre difficile da spiegare ai giudici e che Scajola ha rigurgitato nella sua irresistibile ascesa verso Arcore partendo da Bavari e dal biberon di zio “Lillo”.

 

I capi di imputazione a suo carico sono molti e tutti pesanti e per essi pretendo l’applicazione della recidiva e di alcune aggravanti, prima tra tutte quella di avere agito nonostante la previsione dell’evento, cioè con colpa cosciente, oltrepassando i confini del “non poteva non sapere” ed invadendo il territorio del “non poteva non prevedere”.

 

Da democristiano la contestazione più severa che sento di dovergli muovere è in tutti questi anni l’essersi strappato il distintivo dall’occhiello della giacca prima di fare ingresso in doppiopetto nei salotti buoni della politica, della finanza e di oltre Tevere e aver rimosso in blocco il proprio passato nella DC come fosse stata una cosa di cui vergognarsi e averlo messo a tacere come si fa con i rimorsi.

 

Addebito solo alleggerito ma non cancellato dall’attenuante di non essere mai entrato nei gossip pur frequentando per dovere d’ufficio – direbbe Merola – la “cummitiva accussi allera d'uommene scicche e femmene pittate” di cui parlano le cronache in questi giorni.

 

Immediatamente dopo viene l’imputazione che soprattutto nel Sanremese ha provocato i maggiori danni e mietuto il più alto numero di vittime: la scelta dall’alto della nuova classe dirigente, cioè la selezione delle “élites” locali, come direbbe Gaetano Mosca, uno dei padri della sociologia della politica.

 

Una tragedia.

 

Se i nomi, invece di Scajola, li avesse fatti Luigi XV, quello dell’“Après moi, le déluge”, ci sarebbe stata maggior preveggenza e attenzione al futuro e se invece li avesse scelti Sansone, quello che alla sua morte ha trascinato con sé tutti i Filistei, qualcuno e qualcosa avrebbe potuto sopravvivergli.

 

Eppure non poteva non sapere chi era il chironiano Zoccarato, l’azzimato “Gege” Di Ponziano e l’indaffarato Rolando, e non poteva non conoscere l’insostenibile lievità di Conti, l’ardita intraprendenza di Gilardino e la candida ingenuità di Barla.

 

Tutte ottime persone, per le quali metterei la mano sul fuoco soprattutto adesso che tanti compagni di merende stanno prendendo le distanze da loro, ma le cui gesta Scajola non poteva non prevedere.

 

Nella DC prima della laurea si partiva dall’asilo, poi attraverso le elementari, le medie e il ginnasio e liceo si arrivava sui banchi dell’Università, che erano le assemblee elettive e da ultimo si entrava negli esecutivi che venivano anch’essi eletti all’interno delle assemblee.

 

Il tutto era speculare al “cursus honorum” di Partito, col battesimo della colla nei secchi per attaccare i manifesti, per passare quindi al battesimo di fuoco delle elezioni interne nelle sezioni, nei comitati cittadini per poi arrivare a quello provinciale e, dulcis in fundo, al regionale in via Caffaro a Genova.

 

Una selezione durissima, a base di tabulati e di tessere prima all’interno delle correnti e poi nel confronto tra di loro, fino a quando dopo interminabili mormorazioni si arrivava - come fanno i Gesuiti per scegliere il Papa nero - alla elezione dei segretari ai vari livelli di competenza.

 

Anche ai figli e agli orfani di papà si applicava la legge della selezione biologica delle specie, e ben lo sanno i pochissimi sopravvissuti ad essa, come Franco Amadeo e, appunto, i fratelli Scajola.

 

Tutto ciò è stato spazzato via da un Partito ad personam confezionato con il lego e la plastilina e ho letto i giorni scorsi sui quotidiani che per Zoccarato faceva parte degli stanchi riti della Prima Repubblica, forse perchè lui è arrivato a mettere il culo su quella poltrona senza neppure aver fatto quindici giorni di inserimento all’asilo.

 

Per carità !, nulla di personale contro questi attori vuoti ed evanescenti della fiction politica e amministrativa che si sta consumando soprattutto a Sanremo, al contrario, direi che per qualcuno di loro nutro stima e amicizia sincere.

 

Però, come dicevano i romani, tractent fabrilia fabri e loro in altri tempi non li avrebbero ammessi nella fucina neppure a tirare il mantice.

 

Dopo questi addebiti uno potrebbe pensare che il mio fervore accusatorio si sia placato, e invece no, perché se penso alle occasioni perdute, ai treni passati, alle messe dette e ai vespri cantati, puntando il dito accusatore come il cittadino Gerard nell’Andrea Chenier mi viene da piangere, e non mi succede spesso, anzi quasi mai.

 

E immediatamente dopo mi incazzo, e mi succede tutti i giorni.     

 

Ma come si fa ? – e questo è un capo di imputazione di carattere omissivo – come si fa ad abbandonare a sé stesse, e condannare a una lenta inesorabile decozione  aziende con centinaia di dipendenti, come il casinò e l’AMAIE, senza muovere un dito ?

 

E’ dalla Finanziaria 2003, ministro Tremonti, che il comparto dei giochi in Italia è sottoposto ad uno stress straordinario per caratteristiche e dimensioni : in quella occasione con la depenalizzazione delle macchinette che erogano vincite in danaro, per le quali fino ad allora - e dal 1983 - il nostro casinò era monopolista, con il passaggio delle competenze dal Ministero dell’Interno a quello del Tesoro e con i pieni poteri all’Azienda Autonoma Monopoli dello Stato si era aperta una prima breccia nella Linea Maginot eretta da Mussolini e da Alfredo Rocco a protezione dell’azzardo lecito dagli articoli 718 e seguenti del codice penale, che avevano come interfaccia amministrativa l’art.110 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, risalente al mussoliniano R.D. 18.6.1931 n.773.

 

Sono trascorsi da allora otto lunghi anni, a Sanremo l’emorragia dei proventi è stata costante e micidiale, ci sono settori che costano più di quello che producono e che quando sono chiusi rendono di più, sono ormai presenti un po’ dappertutto in Italia i minicasinò attrezzati con new slot di ultima generazione e con videolottery, il gioco on line è alla portata di tutti come l’aria che si respira, e quante sono state le occasioni e le possibilità di intervenire per un politico che ha nel proprio collegio elettorale uno dei quattro casinò autorizzati, che è il braccio destro del Premier, e che è transitato dagli Interni, al Programma e alle Attività Produttive ? Quante di queste opportunità sono state colte ? Direi una sola, quella di far vedere la luce a Di Ponziano, convertirlo alla propria fede e grazie a lui far saltare gli equilibri di bilancio a Borea e così  mandarlo a casa con un anno di anticipo e fare le elezioni con un commissario straordinario non ostile piazzato a Palazzo Bellevue.

 

La situazione dell’AMAIE è sotto gli occhi di tutti e anche in questo caso l’azienda ringrazia chi ha mandato Conti al suo capezzale, o lo fatto mandare, o consentito che lo si mandasse, non fa grande differenza, che poi sarà ringraziato anche da Riviera Trasporti e, prima o poi, anche da Caltagirone per avergli fatto il medesimo favore.

 

E che dire del famoso e sventurato Centro di Commercializzazione Floricola di Valle Armea per il quale ho fatto più io in tre anni di quanto  sono riusciti a combinare nei trent’anni successivi  ben cinque sindaci, quattro commissari straordinari, tre deputati, un senatore e un potentissimo ministro ? Anche qui le opportunità per una riconversione della struttura sono state tante, quante ne sono state colte prima di arrivare all’attuale disavanzo di esercizio che è l’anticamera del dissesto ?

 

E potrei continuare per ore e ore : come vedi, caro Conte Dracula, non sono il paraculo di Scajola anche se per lui mi getterei nel fuoco, e non per ottenerne qualcosa in cambio ma per l’amicizia di una vita e perché sotto la scorza ne ho conosciuto e apprezzato virtù e qualità.

 

Però vale per me ciò che per Aristotele valeva nei confronti di Platone : “Amicus Plato, sed magis amica veritas”,  soprattutto quando la verità è un cerino che fa vedere la luce in fondo al tunnel.