Nella Prima Repubblica i Partiti-apparato erano l’interfaccia dello Stato centrale, anche per loro Roma era la Capitale burocratica e la stessa cosa avveniva col presidio capillare del territorio mimando la rete locale pubblica.

 

Per assorbire i contraccolpi della nomenklatura “politica” elettiva ripartita in “correnti”, a Roma ognuno di loro aveva il proprio mercato dei tabulati che in periferia festeggiava l’annuale “Fiera del Rinnovo” dei pacchetti di tessere e gran parte del confronto e dello scontro politico avveniva sui temi del finanziamento, della democrazia interna e della resilienza del Partito rivale.

 

Le quotazioni dei tabulati e dei pacchetti seguivano dinamiche non sempre limpide e adamantine che porteranno a Mani Pulite, alla fine della Prima Repubblica, ad Hammamet e alla liquidazione dei Partiti-apparato.

 

Al loro posto arriveranno i Partiti-azienda con mani pulite ma lunghe e la democrazia interna dalla padella dell’oligopolio finirà nella brace del monopolio.

 

Scomparsi i mastodontici e costosi apparati burocratici e le ingorde e pericolose nomenklature elettive il loro posto sarà preso da una cabina di regia manageriale con terminali periferici e già nel 1994 l’ultima “gioiosa macchina da guerra”, quella del PDS di Achille Ochetto, finirà travolta dalla nuova strategia basata sulla comunicazione.

 

Con la crisi economica del terzo millennio e prima che arrivasse la nostra notte fonda, il tramonto della democrazia interna dei Partiti ha conosciuto un terzo tempo con l’inversione del rapporto “azienda-Partito”, nel senso che non è più lei a reggere lui ma il contrario, come il salvataggio “strategico” di banche, aziende e editori dimostra.

 

Ed è così che alla fine, oggi, ci accontentiamo di flash, di sprazzi di simul-democrazia interna, dei riti magici delle regionarie su piattaforme informatiche, tutte fiaccolate che rompono per un istante il buio pesto del Partito-Anonymous.

 

Sono queste le riflessioni da annotare d’impeto dopo aver letto la mail di Crimi a Conca e averla filtrata con l’articolo 49 della Costituzione che prescrive il “metodo democratico” per i Partiti nella loro funzione di concorrere a “determinare la politica nazionale” cioè a far camminar le idee che, per dirla con Nenni, lo fanno “con le gambe degli uomini”.

 

Detto da chi, come il sottoscritto, vede il binomio rossogiallo come il fumo negli occhi può apparire incomprensibile, alla luce delle critiche mosse da Conca alla scelta del suo movimento di non riprodurlo in Puglia, ma la “magis amica veritas” non è paracula.

 

Tre mesi fa il 14 novembre 2019, dieci giorni dopo la lettera di recesso del gruppo franco-indiano dal contratto di affitto e prevendita dell’Ilva, Conca ha scritto la lettera a Giuseppi che copio & incollo.

 

Giusta o no, non entro nel merito, ma è un insieme di idee contrarie a quelle di Giuseppi che oggi leggendo “La Stampa” di Torino costeranno agli italiani un miliardo di euro, ai dipendenti tremila licenziamenti, e ai tarantini il fumo di due altiforni a ciclo completo a coke, uno a gas e uno solo elettrico e l’addio alla barzelletta “full green” raccontata a Londra a Greta.

 

“Caro Presidente Giuseppe Conte,

 

non so esattamente quanto strategico sia l’Asset dell’Acciaio per l’Italia, ma voglio sottoporti alcune considerazioni che mi portano ad altre conclusioni.

 

Da un paio di lustri si edifica sempre meno in Italia per via della persistente crisi economica, per le civili abitazioni non mi risulta si utilizzi l’acciaio, si fanno poche grandi opere, si nasce meno e quindi ci sono meno esigenze, ci sono molte case e capannoni vuoti, ovunque, che andrebbero reimpiegati.

 

Ciò detto, posso immaginare che ce ne serva molto meno, di #acciaio, e credo che la maggior parte della produzione, di oggi, sia destinata all’export.

 

Allora mi chiedo, non si farebbe prima ad importare il quantitativo che ci serve per il mercato domestico?

 

Con tutti i soldi che perdiamo come Stato nel far sopravvivere una società che perde due milioni al giorno ed ha sempre personale in esubero, con una fabbrica obsoleta che fa morire anche gli operai, con i danni incalcolabili in materia di salute pubblica, con i danni per tutte le altre produzioni ecosostenibili che devono rinunciare anche a milioni di fondi comunitari, con le migliaia di posti di lavoro che non si creano perché incompatibili con un’area così inquinata, con le migliaia di morti per tumori, con la stratificazione dei veleni che permarranno ancora per decenni, con l’inadeguatezza degli impianti che costerebbe miliardi mettere a norma, con lo strapotere della #Cina e i suoi 900 milioni di tonnellate di produzione che fanno arrossire i nostri quattro milioni, etc…a che serve insistere su questa strada?

 

Al PIL?

 

È chiaro a tutti che il problema non è lo scudo penale, l’Ilva non può più stare sul mercato neanche se potesse continuare ad inquinare e ad uccidere, non è più economicamente sostenibile.

 

Più passa il tempo e più sarà onerosa.

 

Ma può essere strategica un’attività siderurgica in mano ad un indiano, che vive a Londra in una villa da 57 milioni di sterline estesa per oltre 5 mila metri quadrati, gestita tramite sei trust che controllano il 100% di due holding lussemburghesi che detengono il 37% di Arcelor Mittal e gli garantiscono una quarantina di milioni di dividendi?

 

Se veramente fosse un asset, è giusto che sia in mano ad uno società di capitali straniera e senza scrupoli che alla prima occasione ti ricatta?

 

E non ti pare illogico preoccuparsi degli esborsi statali futuri per la riconversione quando già da anni si perde un milione di euro al giorno di fondi pubblici per salvare Alitalia, anch’essa considerata un asset strategico?

 

 

 

Per me quella fabbrica va chiusa, costi quello che costi, all’insegna del motto più vita e meno diossina.

 

Forse questa è la volta buona e, come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere. Mittal con i suoi 12 miliardi di dollari di fatturato ha semplicemente fatto l’ennesimo business lasciandoci con il cerino in mano.

 

In Europa c’è sovrapproduzione di acciaio, ma questo lo si sa da almeno sette anni. L’azienda franco-indiana, con pochi denari si è tolta di mezzo un competitor e andrà a produrre altrove.

 

Il pesce grande mangia il pesce piccolo e poi può anche decidere di farlo morire di fame, infatti ha smesso di approvvigionare le catene di produzione non facendo attraccare più le navi al porto di Brindisi.

 

Se, come immagino, sono venuti con questi obiettivi, accenderanno un contenzioso con lo stato italiano che durerà anni e forse li vedrà vittoriosi, da maggio 2020 in poi.

 

Nel frattempo hanno escluso la maggior parte delle aziende italiane che fornivano servizi, utilizzando i loro fornitori, sempre meno indotto italiano.

 

Tanto vale lasciarsi in maniera consensuale e indolore per concentrarsi sul dopo acciaio, pagassero i fornitori e le eventuali penali e andassero a quel paese…a tutto c’è una soluzione, tranne alla morte.

 

Quanto può valere l’aver rubato aspettativa e qualità di vita a centinaia di migliaia di ionici per oltre sessant’anni?

 

Ricordo ancora le parole di un gioielliere di Taranto, il signor Feni, quando nel 2000 accompagnai un amico a comprare un orologio.

 

Mentre l’amico sceglieva l’orologio chiacchierammo, mi disse che fatturava 7 miliardi di lire all’anno, poi aggiunse: “secondo te l’aria che respiriamo com’è?” Pur essendo ricco sapeva che si stava avvelenando progressivamente, una condanna a rilascio prolungato…ma inesorabile.

 

Ecco, l’Ilva è come la livella di Totò, ammazza e avvelena tutti allo stesso modo, anche i bambini. Voltiamo pagina. I soldi non sono tutto nella vita! Siate coraggiosi…only the brave!

 

Mario.”

 

Crimi con questa mail non ha tagliato le gambe a Conca ma alle sue idee.

 

 Ciao Mario, ti comunichiamo che a seguito della decisione del capo politico, la proposta di candidatura per le elezioni regionarie non è stata accettata. Un saluto. Lo staff”.

 

Se questa è “metodo democratico”, fate voi.