In un “Villaggio Globale” che ha recuperato l’antimateria e rintracciato il “Bosone di Higgs” tutto è possibile, nulla e nessuno può scomparire senza lasciare traccia, tutto è traceable, ogni cosa che si muove è individuata, geo-localizzata, intercettata, gestita e sottoposta a trattamento e comunque gli spostamenti lasciano sempre tracce indelebili.

 

Vale per la materia e per le persone, per le merci e per qualsiasi comunicazione verbale e scritta, dal documento segretato fino al messaggino galeotto e al “flatus vocis” labiale e fuori onda, e questo pure per i cookies e per i virus degli hackers.

 

Perché, dunque, non dovrebbe valere per Sars-CoV-2, il virus che ha scatenato l’Inferno, la “Particella di Satana” della pandemia COVID-19?

 

Omertà, bavaglio di Stato e privacy a parte, rispondere dovrebbe essere abbastanza facile per una scienza dura come la biologia molecolare.

 

Una disciplina scientifica che applica con rigore il metodo galileiano basato su dati oggettivi, verificabili e condivisibili e che, in questo caso, per il tracking può disporre di un marker assolutamente sicuro e affidabile come la mutazione del genoma virale ogni volta che replica.

 

Si parte dal genoma del pipistrello “ferro di cavallo”, simile al 90,3 % al genoma di SARS-CoV-2 e quindi suo antenato precursore, però con la precisazione che risulta negativo alla malattia COVID-19 provocata dal virus perché le glicoproteine “spike” dell’animale non si legano ai recettori cellulari “ACE2” (acronimo di “Angiotestin Converting Enzyme”) dell’homo sapiens con il quale il meccanismo “chiave-serratura” non funziona.

 

Si passa quindi al genoma del formichiere squamoso “pangolino” che è simile (tra l’85.5 e il 92.4 %) a quello di SARS-CoV-2 e che è il” reservoir” altamente probabile della zoonosi, per aggiungere “ad abundantiam” che questo ospite intermedio risulta positivo alla malattia perchè la struttura delle sue glicoproteine “spike” di ancoraggio è la medesima di quella del virus e si lega ai recettori presenti sulla superficie delle cellule umane.

 

La tracciabilità biologica a questo punto si biforca e il salto dall’animale all’uomo può essere avvenuto come singolo evento “secundum naturae” oppure attraverso manipolazione artificiale, nel primo caso indotto e/o agevolato da pratiche umane e nel secondo caso, invece, come virus “chimerico” coltivato in una capsula di Petri e generato dall’ “homo creator” in laboratorio.

 

Sulla “induzione/agevolazione” della prima ipotesi e sulla “creazione” della seconda, si moltiplicano le valutazioni i giudizi, sempre soggettivi e spesso non disinteressati, ma fanno parte della “soft science” che prescinde dal metodo galileiano, rigorosamente oggettivo e perciò li ignoro.

 

Al bivio, invece, interpello la “hard science” della filogenesi molecolare per sapere quale è la strada giusta da prendere.

 

La domanda è: “Visto che il contagio da SARS-CoV-2 avviene “uomo-uomo”, chi è il primo uomo, cioè il paziente “Zero”, nel cui genoma il salto “animale-uomo” ha innescato la prima mutazione irreversibile nella struttura delle sue molecole?”.

 

E’ una domanda alla quale finora la scienza non ha dato una risposta risolutiva ma si è fermata alle congetture che spaziano dalle “pratiche umane” della gastronomia cinese nel caso della zoonosi fino alle falle del sistema di sicurezza livello 4 di un laboratorio nel caso del virus “Frankenstein”.    

 

Ecco perché oggigiorno quando gli scienziati costruiscono un albero filogenetico -ciascuno con i genomi in suo possesso- lo fanno secondo il classico schema di sequenziamento a otto rami e che comprende 29.903 coppie di basi nucleotidiche e tutti partono dal paziente “Uno”, quello di Wuhan, e non dal paziente ancestrale “Zero”, ancora ignoto.

 

Il loro postulato di partenza è condannato a rimanere del tutto gratuito e privo di fondamento scientifico fino a quando la filogenesi molecolare non avrà scoperto la “Particella di Satana” ricostruendo la storia evolutiva delle glicoproteine “spike” animali con un viaggio a ritroso nel tempo fino ad arrivare al momento in cui il virus ha trovato la chiave RBD (acronimo di “Receptor-Binding Domain”) che ha aperto la serratura ACE2 dell’homo sapiens.

 

Con la precisazione che la gratuità e l’infondatezza del postulato si colloca a monte del bivio perché lo “spillover” del genoma “Zero” potrebbe essere avvenuto, indifferentemente, o in maniera spontanea e naturale oppure in un laboratorio BL4 (livello di “massima sicurezza”) e la sua correzione diventa quindi la fava con la quale si prendono due piccioni.

 

Operazione tutt’altro che semplice da spiegare ma facile da eseguire.

 

Ecco come l’ho capita io da analfabeta della materia ma fortemente interessato alla risposta in quanto soggetto “fragile” per ragioni anagrafiche e quindi fortemente esposto al rischio COVID-19.

 

E’ come per stabilire l’età di un albero, lo si taglia e si contano i cerchi, ognuno indica un anno di vita.

 

Alla stessa maniera si sequenzia il genoma di un pipistrello “ferro di cavallo” che -come sappiamo- è simile al 90,3 % a quello di SARS-CoV-2 e lo si distribuisce  lungo una linea che va dalla posizione nucleotidica n. 56 e quella n. 29.797 suddivisa in dieci fasi aperte di lettura “ORF”, (acronimo di “Open Reading Frame”), dopo di che si stima la ID (acronimo di “Inferred Date”) cioè lo spazio temporale della mutazione e con questa unità di misura si calcola il grado di “parentela” tra il genoma del capostipite animale e quello sequenziato completo di ogni singolo individuo preso in un campionario più o meno ampio di genomi umani.

 

A patto, come è ovvio, che la rosa sia sufficientemente significativa e soprattutto a spettro “universale”, come appunto quella che è entrata nel potente “Acceleratore di Particelle” delle Università inglese di Cambridge e tedesca di Münster e di Kiel.

 

Una rosa che aveva solo 160 petali della prima fase epidemica tra il 24 dicembre 2019 e il 4 marzo 2020, e che quindi era piccola, ma si trattava di genomi in formato DNA che provenivano dai quattro angoli della Terra, Cina, Asia orientale, USA, Canada, Europa, Australia, Messico e Brasile.

 

Non è stato purtroppo come al CERN di Ginevra dove la Scienza ha scoperto la “Particella di Dio”, in questo caso quella di Satana non è saltata fuori, però il letto ancora caldo dove il Maligno ha dormito, quello sì che lo ha trovato.  

 

E’ stata l’apoteosi della Scienza e dell’unità dei suoi metodi perché la biologia molecolare ha agito in questo caso “a canone inverso”, cioè chiedendo in prestito il metodo da seguire alla genetica nelle sue applicazioni in ambito forense e soprattutto nell’archeologia antropologica e tutto questo grazie all’intelligenza artificiale del medesimo algoritmo di rete matematica che i ricercatori anglo-tedeschi normalmente utilizzano nei suoi flashback.

 

All’attivo dei paleo-antropologi di Cambridge e a testimoniare la validità del loro metodo parlano oltre 10.000 studi filogenetici con i quali hanno ricostruito la sequenza cronologica di altrettanti movimenti preistorici dell’homo sapiens raccontando la storia dell’evoluzione delle popolazioni umane che hanno colonizzato il pianeta.

 

La parte del leone, dunque, l’ha fatta la genetica che ha lavorato sull’RNA virale convertendolo in DNA e che ha usato come gessetti i “caratteri” cioè gli alleli del cromosoma e del mitocondrio umani per disegnare sulla lavagna un unico albero globale.

 

Si tratta di un sistema di rete multicasting a pianta circolare dove da 3 cluster-radice A, B e C si irradiano in contemporanea 288 rami lineari di altrettante rotte di infezione ricostruite applicando il principio della massima parsimonia e collegando tra loro 229 mutazioni le quali, a loro volta, scandiscono 101 distinte sequenze genomiche.

 

A farla breve, il letto caldo di Satana è il cluster-radice A che si trova negli USA e in Australia dove i cerchi sul tronco sono maggiori, il che vuol dire -fuor di metafora- che quello è il giaciglio dove è stato trovato il tipo più “ancestrale” di ceppo virale, cioè quello più vicino (96 %) allo spermatozoo di pipistrello che ha dato sembianze umane al Maligno.  

 

Anche negli altri due cluster-radice, cioè in quello B asiatico-cinese e in quello C europeo, il Satana “umano” ha dormito, però lo ha fatto in epoca molto più recente, come dimostra l’alto numero di mutazioni che lo separano dal suo genoma di quando era all’Inferno dentro a un pipistrello antenato.

 

Tornando (ma non del tutto) sul proprio territorio dopo lo sconfinamento nella genetica, la biologia molecolare si muove adesso tra quotidiani riscontri e conferme con una interessante conclusione che porta all’età dello “spillover” che con l’ID (“Inferred Date”) delle mutazioni dei “caratteri” genetici potrebbe essere avvenuto tra i 50 e i 70 anni fa.

 

Una presenza silente e tranquilla, trascorsa dal virus diabolico sonnecchiando un po’ dovunque sulla Terra dentro all’homo sapiens, però nascosta ai suoi occhi come la parte subacquea di un iceberg, mentre tutte le volte che compariva la parte emersa veniva archiviata tra i casi inspiegabili alla voce “A strange pneumonia”.

 

Finchè qualcuno o qualcosa nell’autunno 2019 ha svegliato Satana e questa volta la sua “Particella” è scesa con il piede sinistro dal letto ancora ignoto del “Paziente Zero” e ha scatenato l’Inferno con una patogenicità feroce e violenta a macchia di leopardo nel mondo.

 

Prima o poi doveva succedere, sapevamo benissimo che gli esorcisti lo scacciano da un corpo ma non lo uccidono.

 

L’acqua santa lo ha scacciato nel 2002 con la Sars in Cina, poi nel 2009 con la pandemia di influenza H1N1 negli USA e ancora nel 2012 con la Mers in Arabia Saudita, ma non lo ha mai ucciso.

 

Per farlo esiste una sola arma, il battesimo vaccinale.

 

Con un vaccino che non sia soltanto un nuovo chiavistello nella serratura ACE2 dell’homo sapiens ma che neutralizzi irreversibilmente la struttura del genoma familiare “coronaviridiae” al completo e cancelli il peccato originale dello “spillover”, cioè che rintracci e recuperi il Santo Graal.