Gli USA in questi giorni bruciano e qui in Europa molti si interrogano se si tratti del match tra Trump e Biden, oppure tra legge e crimine, mentre altri preferiscono pensare a una scintilla occasionale in un mucchio di paglia che presto si spegnerà.

Io personalmente dovrei essere tra quelli che condividono il pensiero di Trump, tycoon anticomunista che combatte il terrorismo e deplora chi ha fatto la scintilla.

Io invece la penso come un nero, e spero e confido che altrettanto facciano tutte le persone ragionevoli ed equilibrate (non dico “sensibili” per non metterle in imbarazzo) con le quali condivido l’area di destra dello schieramento politico italiano.

Il nero non è un nero qualunque ma è il capocannoniere Kareem Abdul-Jabbar il più grande marcatore all-time della storia NBA con 38.387 punti, davanti a mostri sacri come Karl Malone secondo con 36.928 punti, come LeBron James terzo con 33.655 punti, come l’italo-americano Kobe Bryant quarto con 33.643 punti e come Michael Jordan quinto con 32.292 punti.

Kareem ha scritto sul Los Angeles Times di sabato scorso un articolo che mi ha commosso, convinto e coinvolto perché supera la ottocentesca antitesi “destra e sinistra” e tratta una disumana antitesi genetica di molto tempo prima che Marx nascesse, antitesi mai superata.

Mal tradotto questo è l’articolo di Kareem Abdul-Jabbar che condivido anche nelle virgole.

Qual è stata la tua prima reazione quando hai visto il video dello sbirro bianco in ginocchio sul collo di George Floyd mentre Floyd ha gridato: “Non riesco a respirare”? 

Se sei bianco, probabilmente hai mormorato inorridito, “Oh, mio ​​Dio” mentre scuotevi la testa per la crudele ingiustizia.

Se sei nero, probabilmente sei balzato in piedi, maledetto, forse hai gettato qualcosa (sicuramente volevo lanciare qualcosa), mentre urlavi, “Not @ # $%! Ancora!”

Poi ricordi i due vigilantes bianchi accusati di aver ucciso Ahmaud Arbery mentre correva nel loro quartiere a febbraio, e come se non fosse stato per quel video che è emerso qualche settimana fa, se ne sarebbero andati impuniti.

E come quei poliziotti di Minneapolis hanno affermato che Floyd stava resistendo all’arresto ma il video di un negozio ha mostrato che non lo era.

E come il poliziotto sul collo di Floyd non fosse uno stereotipo rabbioso dal colletto rosso, ma un Pubblico Ufficiale in servizio che appariva calmo, nell’esercizio di un suo diritto e privo di pietà: incarnazione della banalità del male.

Forse stai anche pensando a quella Karen che al Central Park ha chiamato il 911 sostenendo che l’uomo nero che le ha chiesto di mettere al guinzaglio il suo cane la stava minacciando.

O alla studentessa nera della Yale University mentre fa un sonnellino nella sala comune del suo dormitorio e che è stata segnalata da uno studente bianco.

Poiché ti rendi conto che non è un presunto singolo “criminale nero” a essere preso di mira, ma l’intero spettro di facce nere da Yonkers a Yale.

E cominci a chiederti se non dovrebbero essere tutte le persone di colore a indossare il “body cam”, invece dei poliziotti.

Cosa vedi quando vedi manifestanti neri arrabbiati che si ammassano fuori dalle stazioni di polizia con i pugni alzati?

Se sei bianco, potresti pensare: “Di certo non stanno prendendo le distanze dai social”. Poi noti le facce nere che saccheggiano “Target” e pensi: “Beh, questo fa male alla loro causa”.

Poi vedi la stazione di polizia in fiamme e agiti un dito dicendo: “Questo sta mettendo indietro la loro causa”.

Non ti sbagli, ma non hai neanche ragione.

La comunità nera è abituata al razzismo istituzionale in materia di istruzione, di sistema giudiziario e di posti di lavoro.

E anche se facciamo tutte le cose consentite per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica – scrivere articoli approfonditi e penetranti su “Atlantic”, spiegare la permanente negatività sulla CNN, sostenere i candidati che promettono il cambiamento – l’ago difficilmente si muove.

Ma per i neri COVID-19 ha fatto ricadere le conseguenze del “lockdown” e dei decessi a un livello significativamente più alto rispetto ai bianchi, sono loro i primi a perdere il lavoro mentre assistono impotenti al tentativo dei repubblicani di impedir loro di votare.

Proprio mentre il razzismo istituzionale mostra il suo ventre viscido, si direbbe che si sia aperta la stagione venatoria sui neri.

In caso di dubbio, i recenti tweet del presidente Trump confermano lo zeitgeist nazionale quando mette insieme col termine “criminali” sia i pacifici manifestanti e sia i saccheggiatori.

Certo, le proteste vengono prese spesso come pretesto, scusa o occasione per essere sfruttate da qualcuno, proprio come quando i fan delle squadre sportive festeggiano la vittoria in un campionato e tra loro c’è chi brucia auto e distrugge negozi.

Non voglio vedere negozi saccheggiati o addirittura bruciare edifici.

Però gli afroamericani vivono in un edificio in fiamme da molti anni, soffocati dal fumo mentre le fiamme si avvicinano sempre più.

Il razzismo in America è come fumo nell’aria.

E’ invisibile – anche mentre ti soffoca – fino a quando non fai entrare il sole.

Allora ti accorgi che è ovunque.

Fino a quando lasciamo che la luce risplenda, è possibile abbattere il fumo ovunque si presenti.  

Ma dobbiamo stare attenti, perché il fumo è ancora e sempre in aria.

Quindi, forse la preoccupazione principale della comunità nera in questo momento non è che i manifestanti stiano a debita distanza da tre a sei piedi o che persone disperate rubino alcune magliette o addirittura che incendino una stazione di polizia, ma che i loro figli, mariti, fratelli e i padri non siano assassinati da poliziotti veri o simulati unicamente per il fatto di fare una passeggiata, una corsa, un viaggio.

Altrimenti essere neri significherebbe dover rifugiarsi a casa per il resto della vita perché il virus del razzismo che infetta il paese è più mortale di COVID-19.

Quello che dovresti vedere quando vedi i manifestanti neri nell’era di Trump e del coronavirus sono le persone spinte all’esasperazione e non perché vogliono aprire bar e saloni di bellezza e non possono farlo, ma semplicemente perché vogliono vivere.

Respirare.

La cosa peggiore è che quando siamo oltraggiati e il calderone bolle si pretenda da noi addirittura la giustificazione di ogni nostro comportamento.

Quasi 70 anni fa, Langston Hughes nel suo poema “Harlem” si chiese “Cosa succede a un sogno rinviato? / … Forse si sgonfia / sotto il grande peso / Oppure esplode?

 

Cinquant’anni fa, Marvin Gaye in “Inner City Blues” cantava: “Lascia che io voglia gridare / cosa fanno della mia vita”.

E oggi, nonostante i discorsi appassionati di leader ben intenzionati, bianchi e neri, vogliono mettere a tacere la nostra voce, rubarci il respiro.

Quindi quello che vedi quando vedi i manifestanti neri dipende dal fatto che tu viva in quell’edificio in fiamme o lo guardi in TV con una ciotola di patatine in grembo in attesa che inizi “NCIS”.

Quello che voglio vedere non è una corsa al giudizio, ma una corsa alla giustizia.”

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Qualcuno dirà: “E Salvini, allora?”.

Rispondo: “Non sono il suo biografo e neppure un suo adoratore però lui da Ministro ha contrastato chi in Africa trova ogni pretesto, ogni scusa o ogni occasione da sfruttare, come scrive Kareem Abdul-Jabbar, e in particolare i mercanti di esseri umani.”

I pronipoti 2.0 di quelli che tre secoli fa hanno finanziato e organizzato l'import dei neri nelle Americhe, come animali da lavoro.