Chi osserva freddamente la situazione si rende subito conto dell’importanza della formazione del “Collegio Elettorale” per la presidenza degli Stati Uniti dopo che il 14 dicembre 2020 i 50 Stati hanno depositato le liste dei loro Grandi Elettori.

Adesso all’appello mancano soltanto due Senatori in ballottaggio il 5 gennaio 2021 in Georgia e poi il giorno dopo 6 gennaio 2021 -Epifania- a Washington il Presidente del Senato e Vice Presidente degli Stati Uniti Mike Pence conterà i voti “validi”.

Sarebbe stata una conta puramente notarile se uno dei due candidati alla elezione di secondo grado avesse riconosciuto che l’avversario aveva legittimamente raggiunto la quota di 270 voti richiesti dalla Costituzione, cioè la metà più uno dei 538 membri del Collegio Elettorale.

Però nessuno dei due lo ha fatto.

A rigore, avrebbe dovuto farlo Trump perché il numero “ufficioso” di Grandi Elettori attribuito a Biden supera ampiamente la quota minima di 270, ma Trump non lo ha fatto perché è convinto che una parte notevole di quel risultato non sia “valida”.

Sulla natura e sulla causa delle “invalidità” vi sono diversi punti vista “grosso modo” riassumibili o in una ingerenza straniera, e/o in una frode manuale e/o informatica nella ammissione, espressione, conteggio e attribuzione dei voti personali e/o nella regolamentazione elettorale incostituzionale in singoli Stati.

Vizi respinti in sede di autotutela dagli Stati chiamati in causa e non accolti dalle Corti statali in primo e in secondo grado e infine neppure dalla Corte Suprema Federale per ragioni procedurali di competenza ma non di merito.

Fin qui ho parlato di “invalidità” con riferimento a Trump per spiegare perché lui non vuole riconoscere che Biden ha “validamente superato l’asticella dei 270 Grandi Elettori.

Adesso, però, l’attenzione si sposta a un altro genere di “invalidità”, quella sollevata da un gruppo di Stati davanti alla Corte Suprema Federale in vista del deposito delle liste del 14 dicembre 2020 e che vizierebbe alcune di esse

Sappiamo che la Corte ha declinato la propria competenza e l’ha “girata” ai 50 Stati attribuendola alla competenza “interna” di ognuno di loro.

È a questo punto che si spiega l’importanza della formazione del “Collegio Elettorale” perché il 14 dicembre 2020 alcuni Stati al loro “interno” hanno depositato liste alternative di Grandi Elettori in contestazione reciproca e per le medesime irregolarità e/o frode elettorale di primo grado sollevate in precedenza davanti alla Corte Suprema.

Potevano “costituzionalmente” farlo perché finora è fallito, (fermo all’equivalente di 196 “Grandi Elettori” sui 270 necessari), il tentativo risalente al 2007 di un gruppo di Stati di emendare la Costituzione nell’articolo 2, sezione 1 che stabilisce la “libera” elezione di “secondo grado” del Presidente USA e di introdurre con il “National Popular Vote Interstate Compact”, l’elezione “diretta” con “vincolo di voto” dei 538 “Grandi Elettori”.

 È così che, in assenza di precedenti, i possibili casi che si presentano il 6 gennaio prossimo al Presidente Pence per dirimere la vertenza in atto sono tre: o le liste “soprannumerarie” sono da lui rifiutate, respinte ed escluse dal conteggio oppure sono ammesse in sostituzione di altrettante “invalideoppure sono escluse tutte indistintamente le liste oggetto di contestazione “interna” a ogni singolo Stato.

Nel primo caso vincerebbe Biden, nel secondo Trump e nel terzo il Collegio Elettorale di 538 Grandi Elettori sarebbe sostituito dal Senato composto da 98 Senatori con l’aggiunta dei due senatori eletti il giorno prima in Georgia e del Presidente Pence e sarebbero i 101 membri a decidere.

Fin qui le alchimie dei costituzionalisti, ma l’importanza della formazione del Collegio Elettorale è di ben altra natura e riguarda gli scenari alternativi che secondo i casi verrebbero ad aprirsi.

Ce lo dice la fredda osservazione dei fatti tradotta in dollari.

Nella prassi costituzionale americana la contesa si svolge non tra candidati ma tra le loro “Campagne Elettorali”, dotate di personalità giuridica e di autonomia finanziaria con bilanci pubblici assolutamente trasparenti fino all’ultimo centesimo di dollaro e che quindi “parlano”.

Ecco cosa hanno detto il 3 novembre scorso.

Nella storia di questa ultra bisecolare democrazia è la prima volta che la “campagna” elettorale di un candidato iscrive all’attivo donazioni per un valore che supera il miliardo di dollari, un autentico record ottenuto con il 39 % di piccole donazioni e il resto con “big money”.  

È la medesima “campagna” elettorale che definirei “della ricchezza” che ha vinto in nove dei dieci Stati più ricchi d’America mentre quella avversaria, che definirei “della povertà” vinceva il quattordici dei quindici Stati più poveri.

È la medesima “campagna” che ha sconfitto 92 a 5 la rivale nel distretto di Columbia, con capitale Washington, il collegio elettorale che è in testa nella graduatoria del reddito pro-capite con un distacco del 17% sul secondo, il Connecticut.

Sono queste (e molte altre analoghe) le cifre che disegnano la “identity politics” di questa “campagna” di Paperon de’ Paperoni che riunisce sotto l’unico simbolo elettorale di un moderno Partito progressista un ventaglio etnico, religioso e sociale molto ampio che ha calamitato il voto delle metropoli sterminate, dei giovani, delle donne, dei neri, dei protestanti, dei colossi industriali multinazionali del Nord e che gode dell’appoggio e della protezione delle cattedrali di Wall Street, dell’High Tech di Silicon Valley e dei Big Media di New York.

Uno a questo punto in Italia si tuffa nell’informazione drogata e martellante “PD-M5S filocinese” che gli viene quotidianamente somministrata, ha negli occhi la Trump Towers di New York, il resort di lusso di Mar-a-Lago in Florida e il mondo dorato del Presidente che gioca a golf e si fa lo shampoo col Crodino e dice: “Sicuramente la campagna di Paperon de’ Paperoni è quella Trump!”.

E si sbaglia perché invece è quella di Biden, dei Black Lives Matter, degli antifa casseurs, del Pride e degli abortisti e del moderno “lumpenproletariat” di stampo marxista.

È una minoranza interna, quella dell’1 % come ironizzavano alle primarie i LIB-DEM contro Sanders e la Ocasio-Cortez, però è una minoranza che tiene in pugno le palle di Biden e le strizza, che lo condizionerà pesantemente con i suoi “aut-aut” sugli abusi del capitalismo finanziario e sulle disuguaglianze economiche e che ha fatto accettare da Joe una ricca agenda di “cose di sinistra che introducono, con modalità autoreferenziali e a discrezione del Potere, la redistribuzione del reddito, una fiscalità aspra e giustizialista, una ferrea regolamentazione finanziaria ed economica, la fine delle discriminazioni e il taglio lineare di tutti i benefici e le differenze di razza, di classe sociale e di genere e dei privilegi di casta.

Insomma, sul 61 % della “Big Money” investito nella “Campagna Biden” o c’è scritto “Tafazzi” oppure “Import for China”, fate voi.

La “campagna” di Trump, invece, è quell’altra, quella povera, nazionalista e moderata con una grossa appendice patriottica e ultraconservatrice, con baricentro in un Midwest rurale e manifatturiero, votata da 73 milioni di elettori bianchi, anziani e meno istruiti che optano per il libero mercato, con un bilancio che in estate era la metà di quello di Biden a livello nazionale, un terzo in alcuni Stati come Michigan, Pennsylvania e Wisconsin e a ottobre era all’asciutto in altri come Iowa, Ohio, Texas e New Hampshire.

L’importanza della formazione del “Collegio Elettorale” per la presidenza degli Stati Uniti è in questa contrapposizione tra due “campagne” che parlano, tra ciò che ognuna rappresenta e dice.

Ma soprattutto per ciò che NON DICE, quella di Biden zitta per convenienza e bavaglio e quella di Trump muta perché nessuno la ascolta, o forse no il 6 gennaio prossimo.