Vamos a la playa, cantavano i Rigueira.

In vecchiaia scriverò la mia “Trilogia de los Señores de la playa” sanremese, le tre storie di ieri, quando ci rubarono le spiagge, di oggi mentre ci rubano il porto pubblico, e di domani quando ci ruberanno il futuro, ma per adesso accontentiamoci di un abstract riassuntivo della prima.

Vado a braccio, consapevole di deludere l’immancabile stupido che sa tutto e subito dopo di scontentare il cretino che invece ha capito tutto, loro per me sono come un guard-rail per non uscire dal seminato.

Fin dalle origini la “playa” a Sanremo è stata coperta, protetta e difesa da un serpentone ferroviario con la testa a Nizza sul Var e la coda sul Magra ai confini con il Granducato di Modena e Piacenza.

La posa della prima pietra era avvenuta nel marzo 1857 quando eravamo ancora regnicoli sardi e poco dopo il cantiere dell’Impresa Carratù arriverà a Sanremo grazie ai soldi dei Savoia investiti diplomaticamente da Cavour e militarmente da La Marmora.

A Sanremo il taglio del nastro della linea a binario unico è avvenuto il 12 febbraio 1872 e da quel giorno fino ad arrivare al 30 settembre 2001 con il raddoppio e lo spostamento a monte in galleria il suo litorale ha avuto le spalle coperte dalla “cintura di ferro”.

Sulla playa al di sotto dello “chemin-de-fer” fino al secondo dopoguerra i “bagni di sole” invernali e le sabbiature estive in qualche raro stabilimento balneare signorile e esclusivo in muratura o agli inizi su palafitte ha rappresentato l’eccezione mentre la regola d’estate era l’accesso generalizzato, libero e indiscriminato degli indigeni al bagnasciuga.

Tutti, però, dovevano passare sotto le forche caudine dei viadotti e dei passaggi a livello, percorrendo l’argine dei torrenti scavalcati dalla ferrovia oppure in attesa che le sbarre si alzassero, come nella foto del mio Amico Dino Taulaigo che pubblico.

L’“immutatio loci” per mano dell’uomo in quel lungo periodo è consistita nella posa di scogliere anti-erosione a protezione della massicciata ferroviaria in tempo di pace e nell’arredo della passeggiata a mare di levante tra i binari e il mare e  nella posa di  muri anti-sbarco e bunker in tempo di guerra.

 

*****

 

Assetto stravolto nel secondo dopoguerra per effetto delle profonde trasformazioni subite dalla clientela balneare nella sua composizione e nelle nuove mode.

La stagione balneare da prevalentemente invernale è diventata esclusivamente estiva, soltanto pochi storici stabilimenti pubblici in muratura con clientela signorile, tipo il Fontana, l’Imperatrice e il Morgana, hanno ancora riaperto con standard elevati destinati alla nuova èlite, fatta più di arricchiti che di nati ricchi.

Un pò dappertutto sul litorale cittadino sono spuntate e si sono moltiplicate velocemente le concessioni di stabilimenti nazional-pop e borghesi con cabine-spogliatoio.

Si è così invertito radicalmente rispetto all’anteguerra il rapporto delle concessioni private balneari a lungo termine nei confronti degli spazi liberi, attrezzati e no, di Bussana, Tre Ponti, Arenella, stazione FF.SS. e Foce.

La polpa se l’è mangiata il formicaio di stabilimenti stagionali nei quali sono ambientati gli anni ruggenti di intere generazioni di indigeni e di “furesti” che oggi rimpiangono la giovinezza perduta e il teatro di irripetibili performances sportive e di improbabili avventure amorose.

Le insegne le prendo da un taccuino giovanile ingiallito dal tempo e non ci sono neanche tutte, contemporanee e in ordine: Bagni Stella, Kontiki, Gabriella, Villa Levi, Serenella, Italia, Lido, Florida, Aurora, Elios, “Don Orione”, Mediterranée, Rotonda, Eden Roc, Bikini, Matuzia, Tartaruga, La Bussola, Ippocampo, Lido Foce, Fontana, Tony, Mirasole, Sanremo, Nettuno, Tahiti, La Sapienza, Azzurri e La Brezza.

In quel periodo lo Stato era il “Señor de la Playa” che localmente regnava attraverso la Capitaneria di Porto provinciale e gli uffici circondariali marittimi locali, terminali di una catena di comando che a Roma tra soppressioni e accorpamenti passava di mano da un Ministero all’altro con l’avvicendarsi delle filosofie di governo e con la trinità demanio marittimo, porti e pesca sempre con la valigia al piede.

Con un retroterra naturale meno tormentato e bisognoso sicuramente la troika statale “porti-demanio-pesca” non avrebbe mai accettato che una classe dirigente locale del tutto imprevidente e inadeguata spezzasse quel magico e apollineo equilibrio tra ambiente, economia, società, cultura, mentalità, tradizione marinara e folklore.

Ma purtroppo la sete e il traffico hanno reso indispensabili l’acquedotto del Roya e l’autostrada dei fiori mentre poco dopo si affermava la folle idea che la nautica da diporto fosse il futuro e la locomotiva del PIL cittadino assieme ai Grand Hotel liberty stellati, al Festival e al Casinò, mentre, come sappiamo, oggigiorno sono quasi tutti chiusi i primi, è ridimensionato e ipotecato nelle ricadute economiche locali il secondo e il terzo a malapena riesce a autoalimentarsi per sopravvivere.  

 

*****

 

Non sto parlando male di opere pubbliche che -sottolineo- erano indispensabili ma del “come” e del “dove” le hanno fatte trascurando i loro effetti collaterali.

Due enormi discariche di smarino, per esempio, depositate sul litorale, una a Capo Verde e l’altra a Pian di Poma tutte e due per convenienza delle imprese e supinamente accettate in base alla stupida narrazione dell’epoca che così si strappavano spazi al mare, mentre nel mezzo secolo successivo hanno contribuito, assieme alla pesca al traino delle sciabiche, a distruggerne l’habitat e oggi pongono pesanti dubbi sul loro utilizzo, adeguamento dimensionale e tecnico del depuratore, nel primo caso, e investimento a debito altamente oneroso e improduttivo il secondo.

Potevano e dovevano essere evitate, come pochi anni dopo sarà evitato lo smaltimento a mare dello smarino del raddoppio ferroviario che invece rimarrà in terra, e se non lo si è fatto lo si deve esclusivamente a miserabili ragioni di bottega.

 

*****

 

Sono le identiche miserabili ragioni che hanno dato il colpo di grazia alla “playa” sanremese sfrattata da un enorme  porto turistico sotto il lungomare Trento e Trieste che ha preso il posto degli storici stabilimenti balneari Florida, Aurora, Elios, “Don Orione”, Mediterranée, Rotonda, Eden Roc e Bikini e che tra lui e Portovecchio doveva realizzare tre piscine mai realizzate in sostituzione del Morgana, Italia, Lido e della spiaggia libera dell'Arenella" che dovranno sostituire ai fini della balneazione lo specchio acque antistante ormai inidoneo per la presenza dei due porti che lo racchiudono".

Sottolineo tuttavia che anche in questo caso era indispensabile separare gli yacht dai pescherecci, dalle bettoline e dai loro voluminosi e puzzolenti ammenicoli in banchina e anche dai rumorosi cantieri e offrire confort e sicurezza degli svaghi nautici a coloro che, in numero crescente, se li potevano permettere.

Tutto dipendeva però dal “come” e dal “dove”.

 

*****

 

È roba vecchia, una storia di ricatti, di colpi di mano e di imboscate che si ripete sempre uguale a sé stessa, all’epoca a Sanremo con Pancotti, oggi a Ventimiglia con Scullino, domani chissà? a Imperia con qualcun altro, magari chi penso io.

Nel caso di Portosole tutto si è svolto secondo il copione nel quinquennio 1970-75 che ha preceduto quello del mio debutto in Consiglio comunale a Sanremo quando abitavo già a Genova da dirigente esordiente nella neonata Regione Liguria di Gianni Dagnino.

L’idea iniziale era di un approdo turistico poco invasivo e non di un vero e proprio porto stanziale e permanente, e men che meno di grandi dimensioni.

Infatti tra le 10 manifestazioni di interesse depositate diverse  erano previste a Capo Pino, alla Brezza e in altre zone poco adatte alla balneazione, proponevano limitate  “stazioni di servizio e parcheggio dotate di impianti completi capaci di offrire oltre che asilo e possibilità di manutenzione e riparazione ai natanti, anche sosta e ristoro ai diportisti” e questo nel rispetto della “Circolare Mannironi” del 28 luglio 1970 che per la prima volta offriva ai privati la possibilità di realizzare su aree demaniali porticcioli per il piccolo cabotaggio turistico in concessione ministeriale.

 

*****

 

Ma la Commissione tecnica comunale, “non di gara ma meramente consultiva”, non soltanto ha preso in considerazione ma ha addirittura assegnato una qualche sua preferenza mettendo “implicitamente” ai due primi posti di una ipotetica graduatoria non due porticcioli ma a due grandi porti, Valmarina da 1340 posti-barca e CNIS Portosole da 1000 posti-barca sulla base di estemporanee considerazioni tecniche sviluppare in un documento di 46 pagine dattiloscritte.

Implicitamente, perché si era inventato il requisito-fotografia che il sito prescelto doveva essere “comunque antistante il centro cittadino”.

All’epoca a piazza Bresca, sede della DC, e in Consiglio comunale a Sanremo, dove il gruppo consiliare contava 16 membri su 40, c’erano due generazioni in aspro conflitto tra loro

Quella dei “giovani leoni” di Pancotti, Parise, Lanza, Alberti, Pippione, Nicolini, Simonetti e Viani + Revelli e Lina Lanteri da una parte e quella dell’“Ancien Regime” con due albergatori Lardera e Lolli + 4 altri, alcuni erano scampati al diluvio del primo scandalo del casinò che con quello edilizio aveva travolto e cancellato la generazione dorotea di  Viale e altri che “last minute” erano stati issati a bordo dell’arca con la bandiera dello scudo crociato sul pennone più alto.

I primi con la maggioranza di 10 su 16 esprimevano il sindaco e un numero proporzionale di assessori col “Manuale Cencelli” in mano e i secondi con gli altri 6 esercitavano duramente a volte in modo palese e altre volte occulto il potere di interdizione, di veto.

Un caso occulto, per esempio, cioè nascondendo la mano, è stato quello esercitato il 17 aprile 1971 con il siluro della ineleggibilità sparato maldestramente e a cazzo che faceva saltare l’intera Santabarbara del centro-sinistra, con la decadenza giudiziaria di  Pancotti, sindaco eletto soltanto sei mesi prima il 12 settembre 1970, e di Nicolini, Lanteri e Lolli nella DC e dei suoi tre alleati, il “pisello” Armela, il socialista Ferrero e il liberale Rovere, tutti prontamente sostituiti e mantenendo inalterati i rapporti di forza interni e quindi il potere di interdizione palese.

 

*****

 

Sarà proprio il potere palese di veto, il “niet” di Kruscev, a uccidere la “playa” e il suo meraviglioso mondo di stabilimenti balneari.

Un voto, però attenzione! a due facce, degno di un romanzo di Dan Brown.

Resta il fatto in ogni caso che il risultato segnerà comunque indelebilmente il destino di Sanremo aprendo la porta ai padroni privati solo nominalmente “Señores de la playa”.

Gente che a malincuore sopporta la balneazione popolare e che personalmente preferisce farla ai Caraibi, individui che guardano di storto le attività sportive dilettantistiche in mare e speculatori che portano via alla natura e alla mano dell’uomo specchi d’acqua sempre più vasti per segregarli e trasformarli in spettrali deserti galleggianti di plastica, di acciaio e di vetro.

La scelta era tra Valmarina davanti alla stazione e CNIS Portosole davanti alla passeggiata Trento e Trieste e il veto dei 6 consiglieri DC della “Vecchia Guardia” si limitava a escludere la prima ma era aperta a una qualunque da scegliere tra le altre 9 proposte.    

Ecco perché ho tirato in ballo la penna di Dan Brown.

 

*****

 

Quel 7 agosto 1971 quindi il sindaco Parise, subentrato a Pancotti, aveva davanti a sé l’ampio ventaglio alternativo di ben nove proposte, sia sul “come”, porticciolo oppure grande porto, e sia sul “dove”, lungo l’intero arco costiero e nessun veto palese e neppure occulto lo costringeva a proporre la scelta sotto il lungomare Trento e Trieste, neppure la condizione suggerita dalla Commissione tecnica consultiva,

Segretario della DC locale all’epoca, era Specogna, uno dei fondatori del Partito, anziano e navigato uomo di destra e certamente non tifoso dell’Esecutivo comunale di centro-sinistra retto da Parise, mentre capogruppo era il deputato taggiasco Revelli molto legato a Parise e al suo collega di studio Viani.

La CNIS Portosole era proprietà di un industriale lombardo del tondino, presidente del Milan e senza particolari sponsorizzazioni politiche e di Partito.

Sta di fatto che al netto di imperdibili elucubrazioni e piroette la maggioranza, cedendo al ricatto di 6 cosiddetti “albergatori” e senza essere costretta a farlo, ha optato per CNIS Portosole considerata al contrario scelta obbligata tra due siti equivalenti, mentre la realtà era radicalmente diversa e i 50 anni successivi lo dimostreranno.

Anzi, lo dimostreranno poco dopo con un crescendo rossiniano di eventi nefasti che si abbatteranno sulla società e sul porto lasciandolo inadempiente, incompiuto e lungodegente fino a oggi.

 

*****

 

Roba vecchia anche questa, ma intrigante e tormentata nei suoi sviluppi.

L’industriale lombardo nel 1978 abbandona l’Italia per una storia di assegni scoperti, per sfiga nostra senza fallire e portandosi dietro anche la cassa delle sue aziende metallurgiche bresciane nella cassaforte di un ranch del Texas.

A Sanremo il mecenate e benefattore lascerà in mano ai poveri Martolini e Piras la patata bollente del debito di 4 miliardi di lire maturato verso l’impresa Pali Franki che fin dal settembre 1974 si era già portata avanti con i lavori alla chetichella, sei mesi prima della posa della prima pietra che avverrà il 23 marzo del 1975, gettando a mare la scogliera sopraflutto con materiale estratto dalla cava Albani di Poggio, oltre alla platea e alle attrezzature di cantiere, le prime banchine che saranno attive dal 30 ottobre del 1977 e altro ancora.

Scene di panico indescrivibili sotto la spada di Damocle del fallimento, si pensava addirittura a interrare tutto come a Pian di Poma per realizzare una “esplanade” come Nizza aveva fatto alla foce del Paillon un paio di secoli prima, forse sarebbe stata una buona soluzione invece del fortunoso salvataggio.

Operazione che avverrà sotto l’abile regìa del presidente dell’Ordine dei Commercialisti di Imperia il superlativo Giovanni Lanteri e grazie all’audace Bartolomeo Suria e ai nuovi soci, Cozzi + creditori vari come Albani e ultimi arrivati, tra i quali comparirà anche il sindaco Parise, imprenditore nel ramo trasporti & export floricolo.

Una operazione chirurgico-finanziaria in salsa taggiasca eseguita a cuore aperto e in anestesia totale da Suria, baby pensionato cinquantenne da ex-direttore della filiale sanremese della San Paolo di Torino, banca intervenuta con una trasfusione di sangue FISPAO da 8 miliardi di lirette intestata a Cozzi, giovane e rampante business man nel ramo petrolifero e abile immobiliarista politicamente convertito alla DC dal deputato Manfredi dopo un esordio nel gruppo indipendente “La Fortezza” di Taggia.

Anestesia totale perché Sanremo era incosciente mentre la amputavano degli stabilimenti balneari, dormiva stregata dalle due mele avvelenate della politica cittadina, la gestione del casinò e le licenze edilizie.

Un sonno durato tre lunghi anni prima dello sgombero e dell’occupazione d’urgenza di otto stabilimenti balneari eseguita il 2 agosto 1974 non ostante la loro vittoria di Pirro dell’aprile 1973 ottenuta in sede civile dall’avvocato Calleri.

Così con in mano la concessione statale scadenza 30 luglio 2024 il nuovo CdA di una lungodegente società di mutuo soccorso presieduto da Bartolomeo Suria e composto dal “cantierista nautico” Fernando Amerio, dal ragioniere Gildo Fognini di Taggia, dall’ingegner Giorgio Martolini progettista e dall’altro “cantierista nautico” Mario Piras si incamminava in una Via Crucis infinita, in un Calvario che 48 anni dopo è ancora lontano dal vedere la vetta.

 

*****

 

Le banche, anche quando hanno un Santo nel titolo, non sono istituzioni benefiche, lo sappiamo, loro non possono accontentarsi dei 1.000 posti barca a garanzia dei crediti e intendono rientrare da capitale e interessi puntualmente alla scadenza con valuta sonante, non con sogni urbanistici e edilizi.

Sotto ambedue questi aspetti tecnici intersecati tra loro, quello urbanistico e quello edilizio, le opere a terra hanno avuto un ruolo fondamentale nel succedersi cinquantennale di eventi nefasti che ha impedito al fieno di entrare in cascina e che ha paralizzato il domani.

Prima ancora di iniziare i lavori nell’ottobre 1973 c’era già stato il “testa-coda” della Lina Lanteri, presidente al di sopra di ogni sospetto della Commissione Edilizia che nella seduta del 15 ottobre stabiliva sulla pratica L-571 che “A seguito dell'entrata in vigore della Legge Ponte, anche le opere che pur sorgendo nel mare, si allacciano al territorio comunale, incidendo sull'assetto urbanistico del territorio, abbisognano di licenza edilizia” e poi tre giorni dopo, illuminata dall’Altissimo, evitava rischi stabilendo l’esatto contrario, cioè che la licenza edilizia non “abbisognava” più.

Qualche mese prima c’era stato il varo della “Variante 14” al vecchio PRG “Morini” del 1960, una cornucopia grondante di 140.000 metri cubi di cemento battezzati alla fantasiosa voce “Opere accessorie” spalmate sul polmone verde e sulla cornice Liberty e “Belle Epoque” che incoronava e abbelliva la fascia litoranea tra la Foce del Torrente San Martino e quella del Torrente San Francesco, una puttanata approvata trionfalmente dall’Amministrazione Parise e stroncata brutalmente dalla Giunta Dagnino in Regione.

Miglior sorte non ha avuto la previsione nel PRG “Salesi” del 28 giugno 1976 stroncato poco dopo sul nascere fino a quando il 26 maggio 1980 non entrerà in vigore il nuovo PRG e prenderà corpo la mitica zona L1 suddivisa in 11 sottozone nella quale è ambientata la surreale metafisica urbanistica a scatole cinesi di Portosole.

 

*****

 

Come succede spesso per le auto usate, i vizi occulti nella progettazione edilizia si sono ben presto appalesati anche qui a spizzichi e a bocconi ad allungare i tempi e ad appesantire i costi delle opere a terra, sarà la vendetta della “playa” perduta.

Elencare qui le falle del progetto base “Maggiora-Vergnano” a firma Martolini è impossibile, si scoprirà addirittura, per esempio, che nello specchio d’acqua sfociava un rio, il rio Rubino, non un rigagnolo ma un torrente assassino che costringerà il Comune a opere ciclopiche di tombinatura lungo l’asse di via Anselmi e che obbligherà la società di Cozzi a virarne a ovest il corso con un angolo di 90 gradi fino a farlo confluire nel torrente San Lazzaro e dopo aver aperto un varco subacqueo nella scogliera sottoflutto.

Altra scoperta, i bilici con i massi provenienti da Poggio non passavano sotto il ponte ferroviario che scavalca il torrente San Martino e si è dovuto scavare l’argine preparando le condizioni ideali per future disastrose esondazioni che puntualmente si verificheranno.

Per non parlare del collettore fognario principale che per arrivare al depuratore di Capo Verde è la corda dell’arco tra la stazione di sollevamento del San Lazzaro e il depuratore, passa sotto la banchina e esplode a sorpresa un po’ qua un po’ là nei raccordi con i collettori secondari.

E per non parlare, infine, dell’aborto stradale che da arteria di scorrimento tra il Morgana e via Vesco è diventata un cul-de-sac senza via d’uscita per la sottovalutazione di interferenze tecniche e giuridiche dirimenti.

E ci sarebbe molto altro da aggiungere.

 

*****

 

Parafrasando “Ringhio” Gattuso, un Progetto di massima che nasce quadrato a Roma non può diventare un Piano particolareggiato urbanistico rotondo a San Remo, e neppure per i progetti definitivi convenzionati che ne scaturiranno.

Quel Piano attuativo del nuovo PRG del 1980 che doveva essere arrotondato ha il mio nome e cognome, Bruno Giri, assessore all’urbanistica tra il 26 settembre 1984 e il 26 settembre 1989, relatore in Consiglio comunale il 14 febbraio 1989 della pratica di mia esclusiva competenza ma progettata dall’architetto Paola Muratorio, incaricata a mia insaputa e personaggio che fisicamente non ho mai incontrato in vita mia.

Come è verbalizzato nell’atto n. 43 mi batterò ugualmente come un leone perché fosse approvato, confutando pregiudiziali e critiche feroci dell’opposizione.

Però, sia chiaro, l’ho fatto per dovere d’ufficio, da avvocato, e (direbbe Scajola senior) “a mia insaputa” dei conciliaboli taggiaschi Revelli-Cozzi metabolizzati dal sindaco Pippione, l’ultimo dei “Giovani leoni” di otto anni prima, loro esecutore testamentario e curatore del fallimento della generazione successiva finita quasi tutta in manette.

Tra le macerie del terremoto giudiziario assieme a una dozzina di lottizzazioni curate dal mio consulente, il sanremasco professore Pierandrea Mazzoni, a settembre 1984 avevo trovato anche un piano attuativo della zona L1 “Portosole” a firma Giordano-Martolini risalente al maggio 1982 che soffriva della medesima malattia, l’ipertrofia edilizia e che il commissario prefettizio subentrato dopo gli arresti per l’affare casinò aveva approvato e spedito in Regione.

All’epoca non ero in Consiglio comunale a Sanremo ma da Ceo della S.p.A. del mercato fiori e vice-segretario “Vicario” della DC provinciale capivo che Cozzi stava ingoiando un boccone più grosso della sua pancia, ci voleva poco a rendersene conto.

Si trattava di 44.000 metri cubi di solo garage + 12.000 di hotel + 19.000 di residence + 17.000 di “caveau bateau” e cabine “full-day” residenziali + 27.500 di uffici e negozi + 10.000 di botteghe artigianali, per chi passeggiava sul lungomare Trento e Trieste sarebbe stato come a Berlino davanti al muro.

Sarà rispedito al mittente.

Il “mio” Piano particolareggiato invece sarà approvato perché salvava capra e cavoli e in alcune delle sue 11 sottozone sanava tutto l’esistente, il fatto compiuto, che so? la torre di controllo e annessi per circa 432 metri cubi o i 180 metri quadrati di uffici, o i 1.690 metri quadrati complessivi spalmati tra portineria e baracche di cantiere riconvertite in negozi e in bar, pizzerie e ristoranti.

Osso portato a casa col bracconaggio spicciolo e con l’osmosi da provvisionali di cantiere a opere definitive.

Ma dopo di me la polpa rimarrà nella pentola a bollire ancora per tre anni fino a quando, fortemente ridimensionata rispetto ai 73.000 metri cubi di partenza, nel giugno 1992 arriverà la sospirata licenza edilizia C/1033 per una volumetria di 38 mila metri cubi complessivi.

Postilla per gli appassionati di liturgia burocratica ecco i numeri delle delibere: adozione n. 43/1989, controdeduzioni n. 131/89 e delibera n.84/91 di presa d’atto del DPGR/90 Liguria.

Poi i lavori che, però, nei fatti porteranno all’attuale “ecomostro” di 9.560 metri quadrati di impronta al suolo, il cui scheletro in cemento armato trent’anni dopo è sempre lì mentre avrebbe dovuto diventare un garage di due piani, uno pubblico a rotazione e l'altro privato in vendita, a fianco del quale su altri 5.120 metri quadrati avrebbe dovuto nascere un centro commerciale con dentro una quindicina di negozi di abbigliamento, calzature, souvenir e attrezzi nautici e un hotel a cinque stelle di 67 camere.

Delle tante ragioni di questo flop che iniziano con l’accertamento di importanti abusi edilizi, la conseguente sospensione dei lavori del 20 dicembre 2001 e l’ordinanza di rimessa in pristino del 16 gennaio 2002, e proseguono con vicende giudiziarie e finanziarie successive preferisco non parlare, meglio tornare alla “playa” che avrebbe dovuto essere risarcita almeno con qualche minima contropartita sotto la voce “opere di urbanizzazione a scomputo” mai arrivate.

 

*****

 

Già quarant’anni fa, ai primi di gennaio 1982 finalmente lo Stato si era ricordato di essere lui il “Señor de la playa” e aveva riletto le condizioni risolutive alle quali era subordinata la concessione demaniale di 50 anni tra le quali la costruzione delle famose tre piscine tra il San Lazzaro e il San Francesco, una delle quali sulla spiaggia libera comunale dell’Arenella di 1250 metri quadrati corrispondenti alle dimensioni olimpioniche, e la Capitaneria di Porto di Imperia con una diffida aveva minacciato il ritiro della concessione demaniale.

Però le concessioni Morgana, Italia, Lido e Arenella di 79.150 metri quadrati non erano scadute, i gestori si opponevano alla loro decadenza anticipata, si era tentata la strada del risarcimento e addirittura il 28 marzo 1990 dell’acquisto, e gli stabilimenti balneari sono ancora lì, nelle condizioni igieniche e ambientali che sappiamo.

 

*****

 

Lo Stato oggi è sempre il “Señor de la playa”, regna ma non governa più, i poteri sul demanio marittimo li ha delegati alla Regione Liguria che a sua volta li ha sub-delegati ai Comuni costieri.

Sono cambiati i suonatori ma la musica è sempre quella e ieri era il requiem della “playa”, oggi del porto pubblico e domani, chissà? di tutto quello che resta da rubare.

Anche il finale è lo stesso, finirà tutto a puttane, come è logico che sia.