Venerdì 17 marzo 2017 su FB mi sono imbattuto nel link riassuntivo della partita tra “cassonetti” e “mastelli” disputata poco prima nella sala del consiglio comunale di Sanremo, girone eliminatorio “R.S.U.- rifiuti solidi urbani”, ritorno di quella di andata di un paio di settimane prima.

Non so oggi, ma ai miei tempi quando da consigliere e assessore sedevo su quei banchi mi sembrava di essere tornato nel parlatorio della mia infanzia a Torino, nel collegio “Bambino Gesù” di via Caprera.  

Per chi non lo sa oppure pensa al bla-bla-bla, il parlatorio non è un pisciatoio per logorroici ma un ambiente mistico che alle origini nei monasteri cistercensi era riservato all’incontro fugace e surreale tra la clausura assoluta e il mondo e nelle epoche successive era dedicato al colloquio con i visitatori esterni nelle istituzioni totali, come i collegi, gli ospedali, le carceri, le caserme, i seminari e i conventi.

In collegio a Torino incontravo la Mamma operaia alla RIV che mi leggeva le lettere di Papà soldato in Russia e anni dopo a Sanremo in consiglio comunale incontravo idealmente il migliaio di elettori che sulla scheda avevano scritto il mio nome e ai quali dovevo spiegazioni.

Nel parlatorio di Palazzo Bellevue non c’erano grate ma transenne e subito fuori un passa parola molto più intenso e vivo di quello virtuale dei social di oggi.

Dicevo dell’altra sera, non una partita tra voci diverse ma un coro stonato e dissonante di soliloqui che alla fine ti rimbomba nella testa e nelle orecchie come il monologo di una politica sterile e inconcludente.

All’appello del capocomico in questo recital sulla “munnezza” imperiese i figuranti c’erano tutti a rispondere con un desolante repertorio di luoghi comuni.

Avrebbe potuto essere un adattamento della omonima commedia di Casola, la Cassandra napoletana inascoltata che ha gridato “al lupo! al lupo!” anni prima che il lupo si mangiasse la Città e il contorno casertano, e invece no.

Nel nostro caso chi era al di là dalla grata del parlatorio, cioè la gente comune, forse si aspettava di sentire da quel consesso idee e proposte da sottoporre a chi materialmente se ne sta occupando, per aiutarlo ad affrontare e risolvere i problemi concreti della rivoluzione copernicana del sistema di raccolta “porta a porta”.

Certo, i problemi sono tanti e scontati fin dagli inizi e si riassumono nella parafrasi dell’identica ingiustizia di chi tratta in maniera uguale casi diversi e di chi, invece, lo fa in maniera diversa per casi uguali.

I condomini in centro non hanno spazi comuni neppure per i contatori, figuriamoci per i mastelli, individuali o collettivi.

Molti sono seconde case “mordi e fuggi” con tempi di deposito e tipologie di materiali inconciliabili con i normali programmi di raccolta.

La risposta data a imballaggi, verde e ingombranti non poteva soddisfare fin da subito perché la domanda non è uguale sul territorio e si differenzia per orari e modalità di produzione, sia individuale che di impresa.

I vandali notturni che si accaniscono su dehors e fioriere, che imbrattano di vernice balaustrate, fontane e monumenti figuriamoci se si fermano di fronte ai mastelli e ai sacchetti.

I topi non emigrano da un giorno all’altro di fronte alle novità che li hanno privati delle mangiatoie, e lo stesso vale per i gabbiani e per non pochi poveri cristi che rovistavano dentro.

Erano queste le criticità bisognose di cura, e molte altre, tutte figlie delle tante disuguaglianze che vorrebbero ognuna una risposta diversa.

Sono costituzionalmente allergico alle amministrazioni di sinistra per il loro settarismo ammantato di rigore ideologico però quella di Firenze avrebbe molto da insegnarci, specialmente in materia di isole ecologiche.

L’anno scorso, per esempio, ho toccato con mano e per mesi interi la soluzione data nel centro storico a problemi che neppure i Medici potevano prevedere, e ogni volta mi chiedevo perché no a Sanremo.

Invece l’altra sera mi sono trovato davanti al soliloquio di chi vorrebbe la rivincita del lotto 6, quello di chi fa l’esame del sangue al responsabile del servizio in house, quello di chi getta sale sulle ferite lasciate aperte dall’operazione chirurgica e senza anestesia, insomma un soliloquio corale e collettivo sul nulla.

Almeno nel mio parlatorio la gente poteva seguire sportivamente la partita tra gestione privata e gestione pubblica, certo un confronto ad armi impari, dati i tempi, ma pur sapendo in partenza chi avrebbe vinto almeno capiva dov’erano le porte e dov’era il pallone.

Adesso il “porta a porta” per molti rimane quello di Bruno Vespa.