La combriccola di buontemponi che nella primavera di tre anni fa aveva espugnato Palazzo Bellevue all’insegna del cambiamento ha ormai imboccato la parabola discendente, quella che porta alla frutta e al tubo del gas, e comincia a piovere merda.

 

La luna di miele è tramontata da un pezzo e nella top ten dello scontento il primo posto lo hanno conquistato i rifiuti, con i mucchietti inestetici e maleodoranti in bella mostra sulle strade cittadine.

 

Subito dopo, scavalcato dalla “rumenta” ma sempre in fascia “A” delle incazzature collettive in codice rosso, c’è il disordine pubblico di stretta competenza comunale e da non confondere con la sicurezza pubblica alla quale provvede lo Stato con i suoi “sbirri” che, per amor di Patria, fanno tutto quello che possono e spesso più di quello che dovrebbero.

 

Nel prisma del degrado la faccia peggiore è proprio questa perché è umana e come tale induce a un misto di indignazione e di compassione, un incubo animato da esseri miserabili ormai adottivi, residenti o col domicilio di soccorso, poveri diavoli, mendicanti, pezzenti, accattoni e venditori ambulanti che in ogni angolo di Sanremo esibiscono ai passanti la loro "cour des miraclescol bidet nella fontana di San Siro, la rissa in via Martiri, la pisciatina contro il platano di corso Garibaldi e le estemporanee boutiques di moda nei cassoni dei motocarri e dei furgoni, per non parlare dei fruttaroli e dei pizzicagnoli su quattro ruote.

 

Segue ben saldo sul terzo gradino del podio il degrado del territorio che ormai è cronicizzato con ecomostri in abbandono, stabilimenti fatiscenti, giungla traboccante nel greto dei torrenti, panoramica di serre collinari sommerse da rovi, erbacce e parietaria che la fanno da padrone un po’ dovunque.

 

Il quarto posto della colonna infame, in codice giallo, è conquistato da spezzoni della burocrazia comunale, schegge impazzite che nell’ombra e protette dall’anonimato ne combinano di cotte e di crude all’insaputa dei pochi e nell’indifferenza di tutti gli altri.

 

Le loro vittime si lamentano flebilmente sui social, qualche timida protesta sale fino al 59 di corso Cavallotti, i più audaci fanno ricorso al T.A.R., ma intanto ti vincolano il terreno, ti castigano l’azienda, ti frustano a sangue con lo street control, ti marchiano a fuoco con verbali infamanti, ti licenziano su due piedi, ti prendono per stanchezza e ti distruggono legalmente la vita.

 

Al quinto posto troviamo loro, i buontemponi che si spacciano per politici e per amministratori ai quali la gente chiede di risolvere le quattro criticità che la affliggono e loro per legge non ne hanno le competenze, che appartengono ai burocrati, ma neppure le capacità perché nella vita fanno mestieri diversi, chi coltiva ranuncoli, chi vende libri, chi ausculta cuori e palpa pance.

 

Il risultato è che il diserbo di un carruggio, l’installazione di un semaforo e il riempimento di una buca sono celebrati come imprese epiche da immortalare nelle res gesta matuziane alla festa del Santo Patrono.

 

Sesta in graduatoria tra le cause di scontento viene l’economia che a Sanremo è come l’araba fenice del Metastasio, che vi sia, ciascun lo dice, dove sia, nessun lo sa.

 

Turismo senza alberghi, commercio senza negozi, floricoltura senza aziende, servizi senza strutture e organici, edilizia senza cantieri, casinò senza clienti e se qualcosa in questo deserto  è rimasto in vita ci penseranno i supermercati, i labirinti urbanistici, paesaggistici, ambientali e i balzelli comunali a dargli il colpo di grazia.

 

Tutto questo è alla base della settima fonte di delusione, il lavoro, l’impiego, il posto soprattutto per le nuove generazioni alle quali il sudore e i sacrifici di quelle precedenti hanno tolto il magaio dalle mani sostituendolo con una laurea da bamboccione improduttivo e assistito.

 

Chiudono la graduatoria in ottava, nona e decima posizione, rispettivamente, la mortificazione della tradizione e dei suoi simboli, la gastronomia, il dialetto, il folklore e tutto ciò che è sanremasco, il ridimensionamento della cultura, dalla crisi dell’Orchestra Sinfonica a quella del teatro, e infine, da ultimo, la perdita dell’identità e l’offuscamento dell’immagine prestigiosa che Sanremo aveva faticosamente costruito nel corso di quasi due secoli.

 

Difficile pensare che nei due anni che rimangono queste dieci fonti del malcontento cittadino possano essere prosciugate, ma la speranza è l’ultima a morire e lei prima di chiudere gli occhi per sempre e cedere il posto alla rassegnazione consiglia una cura da cavallo basata su un sostanzioso rimpasto di burocrati e di amministratori, sull’abbandono delle alchimie futuribili e sul recupero di ciò che già esiste ma che è inespresso, incompiuto e incompreso.

 

Basterebbe guardarsi intorno senza paraocchi e senza la mediazione dei burocrati e delle sirene di Partito.