Da quando Di Maio ha chiuso il forno leghista anche i grillini sanremesi tubano col PD e coi suoi paraculi civici e c’è da giurare che il 25 aprile e il 1° maggio non faranno mancare il loro fattivo contributo a un antifascismo archeologico degno dello Schliemann, lo scopritore di Troia.

 

Il grillino ha anche che lui un cognome tedesco ma nazionalità italiana e stamane sulla Stampa separa da buon manicheo il bene dal male nell’affrontare lo spinoso tema dello scolmatore del torrente San Romolo.

 

Colpa di Simone Baggioli, rampollo degenere di una stirpe storicamente partigiana, antifascista e di sinistra che ha appiccato il fuoco alla coda di paglia dei sindaci Borea e Biancheri, entrambi a trazione PD e che così, apriti cielo! ha spinto un plotone di volonterosi pompieri a tentare di spegnere l’incendio.

 

Ma questa volta il pompiere grillino ha preso il secchio sbagliato e sul fuoco invece dell’acqua ha gettato benzina.

 

Lui accusa di “disonestà intellettuale” di stampo elettorale chi nega il bene rappresentato dal candore dell’Amministrazione in carica e copre il male rappresentato dai responsabili di due errori, uno di progettazione e l’altro di valutazione dello stato di fatto.

 

Il bene si chiama Biancheri e il male la trimurti di ingegneri Rolando, Puppo e Russo, il primo antagonista di Borea nel ballottaggio del 2004, il secondo assessore leghista ai lavori pubblici nella giunta Oddo del 1993 ma adesso convertito ai “100”, e il terzo apolide casualmente presente nel posto sbagliato e al momento sbagliato.

 

Il grillino, evidentemente, è convinto di aver preso due piccioni con una cazzata.

 

Ve la spiego.

 

Le varianti progettuali hanno sempre avuto diritto di cittadinanza nei lavori pubblici, fin dai tempi di Sardanapalo e dei Faraoni perché solo Dio è infallibile e perché l’imprevisto e la sorpresa sono sempre presenti quando si passa dalle scartoffie al cantiere.

 

La legge le ammette e dice cosa bisogna fare nei confronti sia dei terzi coinvolti e sia nel rapporto contrattuale con l’impresa appaltatrice costretta a sospendere i lavori ma obbligata a tenere in vita un costoso cantiere mobile con personale, attrezzature e impianti.

 

Nel 2007 la Giunta Borea nell’approvare la variante doveva tenerne conto, concordare bonariamente con l’impresa il risarcimento del danno a lei non imputabile e tutto sarebbe finito lì; ma non lo ha fatto.

 

Un paio d’anni dopo, a cose fatte, è sopraggiunta l’amministrazione di centro-destra che però si è occupata di tutt’altre attività per stare dentro il termine del 2014 che condizionava il finanziamento “Pignamare”, cioè della riqualificazione e dell’arredo urbano dell’asse corso Mombello-Pian di Nave-Santa Tecla, progettati in tre lotti dai tecnici comunali con il solo apporto esterno dell’ingegner Russo per la vasca di espansione all’incrocio con via Matteotti.

 

Il nodo del risarcimento all’impresa, creato da Borea, è venuto al pettine al momento della contabilità finale e del collaudo nel 2015 con Biancheri.

 

Questo per dare a Cesare quello che è di Cesare, ma non finisce lì, anzi comincia da lì.

 

Una volta per farla franca agli amministratori era sufficiente che il Consiglio comunale ottemperasse alla sentenza di condanna definitiva e tutto cadeva nell’oblio, colpe e responsabili.

 

Poi il danno erariale è finito sotto indagine della Corte dei Conti in un crescendo di obblighi e di conseguenze e adesso siamo arrivati al capolinea con l’obbligo di trasmettere la delibera e di giustificare il riconoscimento del debito con l’”utilitas” che ne deriva al Comune e che compensa l’esborso.

 

Il Consiglio comunale è libero di riconoscerla ma se la Corte non è d’accordo fa pagare l’importo ai consiglieri che hanno riconosciuto il debito in concorso con i funzionari che hanno contabilizzato, ordinato e liquidato la somma.

 

In questo caso la somma è ancora da pagare, è stata ordinata dal Tribunale e, letta la sentenza, è di ardua compensazione con una “utilitas” che sicuramente il Comune otterrebbe invece se certi apprendisti stregoni tornassero alle loro faccende domestiche anziché occuparsi di cose più grandi di loro.