La coscienza morale per un cattolico è la voce di Dio che gli parla e che gli ordina di perseguire il bene e di rifuggire il male, mentre per gli atei tutto si riduce alla medesima distinzione ma come prerogativa innata della conoscenza umana.

 

Il problema per entrambi è la linea di demarcazione, partendo dalla mano che la traccia fino ad arrivare al perimetro delle due aree contrapposte del bene e del male, alle regole del gioco e all’equilibrio del sistema nel suo complesso.

 

Premetto queste considerazioni per smentire chi pensa che la politica faccia tacere e annulli la coscienza, opinione che si traduce nell’assolutismo manicheo per il quale tutto il bene è dalla propria parte e tutto il male è dall’altra.

 

Ma anche per smentire il contrapposto concetto relativistico che vuole la politicaarte del compromesso”, un luogo comune preso a prestito dallo stupidario corrente e che viene usato nelle sue infinite sfumature di grigio contro il bianco e il nero della radicalizzazione intransigente.

 

Questo perché il giorno del giudizio, che per la politica è quello delle elezioni, la coscienza ritorna sempre binaria a imporre un’unica scelta dopo l’esame tra il sì e il no, tra il bianco e il nero, tra il bene e il male. 

 

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E’ quello che accadrà a ciascun europeo, italiano e sanremese quando il 26 maggio 2019 entrerà nella cabina elettorale con la matita in mano a mettere una croce sulla prima scheda, sempre che non abbia scelto il “cupio dissolvi”, cioè di dissolversi e di annullarsi come soggetto politico disertando le urne.

 

La prima scheda è quella per il Parlamento europeo e su di essa l’esame di coscienza e la croce da mettervi sopra non riguardano l’operato dell’eurodeputato uscente e di riferimento perché, a qualsiasi parte politica appartenga, la sua responsabilità ponderata è più flebile del battito d’ali di una farfalla che pure sarebbe in grado di provocare il caos universale stando alla teoria del butterfly effect.

 

Prevedo invece che in quel fatidico giorno come è già successo il 4 marzo scorso la faranno ancora da padroni a livello nazionale la recriminazione e il rancore provocati nella stragrande maggioranza degli italiani da questioni lontane e da personaggi ormai tramontati dietro l’orizzonte della memoria; nodi che a distanza di decenni solo adesso arrivano al pettine e aggiungo alle mie facili previsioni che per tutti indistintamente gli elettori il frutto della colpa riguarderà la pesante eredità che senza beneficio di inventario ci ritroviamo sul groppone.

 

Ogni giorno se ne apre un capitolo nuovo: qui siamo in Liguria, la regione del ponte Morandi che la vulgata dominante vuole sia crollato per colpa di “Autostrade per l’Italia” e certamente l’esame di coscienza elettorale riguarderà la domanda se sia stato un bene o un male aver privatizzato la società statale e averla svenduta a Benetton e subito dopo l’interrogativo di chi dobbiamo ringraziare, qualunque sia stata la risposta alla domanda precedente.

 

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Senza essere uno dei “tycoon de noantri”, di quelli che si avventeranno come cani famelici sulla ciotola riempita dai vari Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato e D’Alema al “desbaratu” di un parco industriale italiano che ora si scopre strategico, ricordo tuttavia con lucidità le ali basse e le pezze al culo dei piccoli concessionari privati nelle sessioni ANAS a Roma, in via Monzambano, quando quasi tutte le autostrade erano dello Stato, gli rendevano miliardi e noi a Sanremo con l’Autostrada dei Fiori a trazione privata di Marcellino Gavio stavamo in coda a mendicare col cappello in mano un contributo per gli stralci dell’Aurelia bis.

 

Eppure con quel sistema bollato come centralista e “clientelare” eravamo riusciti -tra tutti- a mettere insieme cinque dei sei segmenti della nostra circonvallazione, ma ogni volta con sempre maggior pena e raschiando il fondo del barile grazie ai Mondiali di calcio e alle “Colombiane”, e questo non ostante la tragicomica parodia nostrana di “Mani Pulite”.

 

Dopo di noi però con l’arrivo della Seconda Repubblica è venuto in soccorso di Sanremo un terzetto di figli di papà, manager nel campo dei water, delle macchine usate e dei bulbi e da oltre dieci anni siamo fermi al Borgo, manco più in coda.

 

Noi eravamo il male, politici bisognosi e col codice a barre in fronte, loro erano il bene, imprenditori prestati alla politica e filantropi che scendevano in campo per salvare la Patria.

 

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Il 26 maggio 2019 al momento di mettere la croce sulla seconda scheda, quella delle elezioni comunali, nel farsi l’esame di coscienza Sanremo dovrà tener conto di questo e di molto altro ancora perché sul fuoco della rabbia che il 4 marzo scorso in città ha regalato 14.000 voti gialloverdi soffieranno un po’ tutti con il facile aiutino della memoria corta che confonde le idee e porta acqua al mulino dei furbi.

 

Il gioco d’azzardo diffuso, una epidemia sociale che al pari della droga sta intossicando l’Italia fino a diventare per il popolo gialloverde una delle carte vincenti del 4 marzo scorso è un’altra tra le tante questioni che citavo prima.

 

Questioni, dicevo, lontane nel tempo suscitate a livello nazionale da personaggi ormai tramontati dietro l’orizzonte della memoria e che oggi vengono al pettine investite dalla recriminazione e dal rancore della stragrande maggioranza degli italiani.

 

Quando Mussolini lo aveva tollerato a Sanremo ma restava proibito nel resto d’Italia dal codice penale e dal testo unico di pubblica sicurezza ho lavorato al casinò a conduzione privata per sei anni, tra il 1° agosto 1961 e il 24 maggio 1967 e in seguito mi è capitato più volte come amministratore di accompagnare il sindaco al Viminale per illustrare le nostre ragioni a favore del rinnovo della concessione e della detassazione dei proventi.

 

Poi nel 1993 nella mia qualità di consigliere ho ricevuto a domicilio dal ministro Mancino tramite il direttore generale Malpica l’ingiunzione ad affidare la gestione del casinò a un privato, altrimenti, in caso contrario, sarei tornato a casa e lui non avrebbe rinnovato al Comune l’autorizzazione in deroga al codice penale.

 

Era il proibizionismo, bellezza!

 

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A voltar pagina e ad aprire la porta della gabbia penale all’azzardo diffuso sarà Berlusconi a fine 2002, Sciaboletta era appena uscito qualche mese prima dal Viminale per aver dato del rompicoglioni a Biagi e il suo ex collega Tremonti, ministro dell’economia, infilava nella Finanziaria 2003 il famigerato articolo 22 con il quale scippava i giochi al nuovo ministro dell’interno Pisanu e li consegnava alle “Dieci Sorelle” per il tramite dell’Azienda Monopoli guidata da Giorgio Tino.

 

Tutti a minimizzare la cosa, a Roma, a Imperia e a Sanremo, nessuno che abbia pensato, anche soltanto “pensato” che nel secondo mercato dell’azzardo al mondo per un giro d’affari di 20 miliardi all’anno (Tino al Senato, audizione del 25 maggio 2005, cit.) cifra pari all’importo dell’intera manovra correttiva di quell’anno, i quattro casinò prima o poi sarebbero finiti a puttane assieme ai milioni di vittime della ludopatia.

 

Uno, Campione, ci è già finito, e gli altri tre, chi più chi meno, si sentono poco bene.

 

L’ultimo avvertimento, ricordo, lo aveva lanciato la senatrice sudtirolese Helga Thaler Ausserhofer, grande amica di Andreotti, che  in Commissione aveva ricordato che: 1) “Già troppa gente è dedita al gioco”; 2) “Non necessariamente si devono istituire giochi legali per combattere l’illegalità dei giochi”; 3) ”Non credo che l’Erario debba sostituirsi alle organizzazioni illegali che incentivano il gioco”; 4) “Ho l’impressione che tutti i ragionamenti che stanno alla base della liberalizzazione dei giochi attengano solo alle entrate dell’Erario. Non si considera mai il lato umano della questione, i problemi sociali che concernono le famiglie e i giovani”; 5) “Chiedo al direttore generale se, almeno in parte, si sia tenuto in considerazione tale aspetto. Anche nella mia limitata esperienza provinciale ho avuto modo di verificare quali problemi possano creare questi giochi in ambito familiare, specialmente per le famiglie povere che più` di altre si dedicano al gioco nella speranza di dare una svolta alla loro vita. Considerato che proprio queste famiglie, nella situazione difficile che vive il Paese, sono le più svantaggiate, credo che sia opportuno trovare soluzioni diverse ed evitare di incrementare le tipologie di gioco.”

 

Oggi l’esame di coscienza se lo dovrebbero fare quelli che a Sanremo ci hanno fatto credere che nel tuffarci dall’aereo del proibizionismo non ci voleva paracadute, aziendale e sociale, e che la pacchia sarebbe continuata in eterno.

 

Chi sono? Beh, farei torto all’intelligenza dei sanremesi se li elencassi, anche perché qualcuno di loro oggi ha il coraggio di riproporsi a fianco dello Smilzo, come Di Ponziano, messo lì da Borea e confermato da Mago Zoc ma anche a fianco di altri aspiranti sindaco.

 

Poi ci sono i desaparecidos in agguato dietro l’angolo, di loro non saprei, penso ad esempio a tipi come quel Caronia nato sindacalista, eletto consigliere, promosso direttore e espatriato a San Marino.

 

Tutta gente che oltre a doversi fare un severo esame di coscienza e trarne le conseguenze dovrebbe capire che al casinò non c’è più trippa neppure per i gatti ed evitare, come lo Smilzo e Sciaboletta, di venirci a fare la morale (traduco: prenderci per il culo) con il “pericolo ludopatia”.

 

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Il 26 maggio 2019 è ancora lontano, avremo modo di parlarne, ma quando vedo certe facce e leggo certe cose con Luca “mi sale la Carogna sulle spalle, e mi si agita tutta, che ci devo dare sei negroni per calmarla!", altro che pio e devoto esame di coscienza, azz!