Un anno fa ad oggi, 22 dicembre 2020, il mio post sulla caricatura della “Storia di una capinera” di Verga in versione calabrese, pubblicato nel calore della battaglia elettorale combattuta e vinta dalla Presidente Jole Santelli, destinata a perdere ahimè! la guerra contro la malattia.

Dedico a quella Grande Donna un pensiero e una preghiera.

Accadde oggi: un anno fa, 22 dicembre 2019: Bruno Giri sta leggendo “Brigantaggio politico e sociale.”

Ci vorrebbe un “Verga.0”, questa volta non per scrivere ma per girare un docufilm sulla storia, questa volta non di una capinera ma di una sardina, questa volta non in Sicilia ma in Calabria.

Lì, a Catanzaro, c’è la Corte d’Appello dove il 6 aprile 1963 due operai hanno coronato il loro sogno di avere il figlio avvocato, erano i miei Genitori, lì il Marchese Roberto Susanna mi onorava della sua amicizia, lì ho divorato quantità industriali di “morzeddu ca pitta” e lì sotto a Copanello mi sono sentito Nettuno, il dio del mare.

Gente fantastica e terra meravigliosa per chiunque ma non per una sardina con pulsioni che la spingono a evadere, come quelle di Maria nel romanzo di Verga che vorrebbe evadere dal Convento e come la capinera chiusa in gabbia che “soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete”.

L’unica differenza è che la Maria di Verga le pulsioni le avverte per amore di Nino, mentre è l’odio per Matteo a spingere la sardina di Catanzaro, una delle tante sardine-pilota “sott’odio” nate in provetta in un Laboratorio bolognese specializzato nella inseminazione artificiale dell’ovaia politica di sinistra, per capirci.

Fin qui nulla da dire, da “Mortadella” possiamo aspettarci di tutto e di più dopo aver svenduto a società private, da presidente IRI, tutto il nostro patrimonio economico nazionale pubblico, dopo che aver accettato, da Premier, e poi imposto, da Presidente della Commissione UE, i parametri scellerati del trattato di Maastricht di conversione della lira in euro, dopo averci inflitto privatizzazioni, tagli al welfare e sottomissione ai diktat franco-tedeschi e soprattutto dopo aver introdotto nel 1997 il cancro del precariato con raffinati strumenti di ricatto e di sfruttamento del lavoro.

Nulla da dire neanche per la sardina calabrese, libera di evadere da un anonimato che in fondo allo Stivale è ancora più anonimo e di lasciarsi abbagliare dalle lampare della tv di sinistra.

Per me però la “Storia di una sardina” non è soltanto la caricatura ironica dei tormenti di una bella e intelligente novizia nel Convento di “Madre Mortadella”, badessa radical chic a Catanzaro, ma è la metafora visiva di un desiderio inconscio e collettivo dei calabresi, una pulsione e uno stato d’animo che non vanno letti, ma visti, e che si esauriscono in una immagine, quella di una sardina, una cosa materiale che nella sua concretezza esprime un qualcosa di immateriale, un concetto astratto che definirei istinto di sopravvivenza, di ribellione e di riscatto.

Sentimento tradito dalla Politica perché la sardina di Catanzaro che canta “..se io muoio da partigiano tu mi devi seppellire lassù in montagna sotto l’ombra di un bel fiore” a sua insaputa è la pronipote dei briganti che cantavano: “Ommo se nasce, brigante se more e fino all'urdemo avimm' a spara' ma si murimmo menate nu sciore e 'na preghiera pe sta liberta'”.

Quando cantavano: “nuie cumbattimmo p' 'o rre burbone e 'a terra nosta nun s'adda tucca' 'o vero lupo ca magna e criature e' 'o piemuntese c'avimm' a caccia'” i suoi trisavoli che combattevano per Francesco II di Borbone avevano le idee chiare, oggi invece a mangiare i bambini secondo Gratteri ci sono tutti e l’unico vegano è proprio quel Matteo odiato dalla sardina di Catanzaro.