Ieri sul Decimonono in prima pagina Toti spiegava perché ha proposto a Renzi di aprire un CIE in Liguria.
La faccia della medaglia è convincente, ma c’è l’altra faccia da considerare.
Lui ricorda quando Berlusconi ai tempi della primavera araba fece la medesima proposta a Burlando e ottenne un secco no e fa presente che oggi le parti si potrebbero invertire se da Renzi ricevesse un altrettanto secco no.
Qui sta il nodo che impedisce di risolvere onorevolmente la questione, il nodo dei ruoli e delle competenze.
Forse nella grande confusione generale vale la pena riportare il tutto in termini più semplici possibile e tentare di renderlo comprensibile ai molti che ne discutono senza avere davanti un chiaro quadro di riferimento.
La materia è disciplinata a livello comunitario dal Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata da un cittadino di un paese terzo.
Si tratta di normativa approvata da un Consiglio europeo nel quale dopo il Trattato di Amsterdam la politica era entrata a gamba tesa e la stesura del documento avvenne sotto la sapiente regìa di Romano Prodi, Presidente italiano della Commissione.
Dare del velleitario e dell’utopistico a quel testo è fargli un complimento.
D’altra parte stiamo parlando di cose scritte 10 anni fa sull’onda emotiva della rivoluzione tunisina dei gelsomini contro Ben Ami, uno scherzo rispetto a quello che avverrà negli anni successivi nel maghreb e dintorni, prima con la primavera araba e poi con il Califfato.
Nel rileggerne alcuni punti colpisce e meraviglia l’inapplicabilità pratica del regolamento più ancora della sua insostenibilità sociale o politica.
Per esempio, l’articolo 6 stabilisce che entro tre giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale, ai richiedenti sia rilasciato un documento nominativo che certifichi lo status di richiedente o che attesti che il richiedente è autorizzato a soggiornare nel territorio dello Stato di arrivo nel periodo in cui la domanda è pendente o in esame oppure, qualora il richiedente non potesse circolare liberamente in tutto il territorio dello Stato di arrivo o in una parte di esso, un documento che attesti questa sua condizione.
Lascio perdere il senno del poi e retrocedo al 2003 per chiedermi, col senno dell’epoca, con quale esperienza e buon senso si siano potute scrivere cose come queste.
Cose che in partenza presuppongono identificazioni fulminee alla frontiera, che subito dopo implicano procedure di asilo complicate all’esito di istruttorie burocratiche complesse e spesso allungate da un inevitabile contenzioso e che comportano un soggiorno che non pregiudichi (testualmente) la sfera inalienabile della vita privata e permetta un campo d’azione sufficiente a garantire l’accesso a tutti i benefici oltre alla possibilità di circolare liberamente nel territorio dello Stato ospitante o nell’area da lui assegnata.
Certo, il Regolamento accorda allo Stato di arrivo vari palliativi, come la residenza coatta, l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità o la costituzione di una garanzia finanziaria e gli offre l’alternativa del trattenimento in vista del rimpatrio ma si tratta di soluzioni tecnicamente inapplicabili perché equivalgono da un lato a un welfare parallelo a quello esistente per i cittadini dello Stato di accoglienza, ma con condizioni più favorevoli per i nuovi beneficiari e dall’altro lato alla organizzazione di una rete diplomatica e logistica con un pulviscolo di Stati africani e asiatici in difficoltà belliche, economiche e organizzative.
La procedura di rimpatrio degli irregolari, non ostante l’aggiornamento del 16 dicembre 2008 con la direttiva 2008/115/CE del Consiglio e del Parlamento europeo è quanto di più costoso, difficile e pressoché impraticabile si possa immaginare specie quando interessa non singoli ma intere masse.
Si poteva fare dieci anni fa con i C.I.E., Centri di Identificazione e di Espulsione, quando l’immigrazione era agli inizi, Mu’ammar Gheddafi, Hosni Mubarak e Bashar al-Assad erano saldamente in sella e in Irak l’establishment di Saddam Hussein era alla macchia dalla quale riemergerà soltanto l’anno scorso per creare la cabina di regia strategica del Califfato.
Non dimentichiamo, poi, che questa è materia di diritto internazionale ancor prima che di diritto comunitario europeo o di diritto nazionale e che la relativa giurisdizione è sovranazionale, indipendente, severa, pesante e garantista, come oggi tocchiamo con mano nella vicenda dei due marò in India.
I presupposti del trattenimento richiesti dal Regolamento comunitario possono apparire anche semplici e facili, e agevolati dal fatto che devono essere specificati nel diritto nazionale.
Esigenze di identificazione e di istruttoria, rischio di fuga, motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico sono sostanzialmente le ragioni che consentirebbero a Renzi di aprire un C.I.E. in Liguria come chiede Toti.
Ma a questo punto scatta l’articolo 8 in materia che dice:” Gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente ai sensi della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013” eccetera, eccetera, e lo fanno nel solo caso che “non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive”.
Arrivano poi i due successivi articoli 9 e 10 in tema di garanzie per i richiedenti trattenuti, che possono esserlo “solo per un periodo il più breve possibile e soltanto fintantoché ne sussistono i motivi” e in tema di C.I.E. che, in caso di necessità, può essere anche un “istituto penitenziario” a patto, però, che il “richiedente trattenuto sia tenuto separato dai detenuti ordinari e siano applicate le condizioni di trattenimento previste dalla direttiva IT L 180/102 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 29.6.2013”, cioè più o meno come un hotel a tre-quattro stelle.
Piaccia o non piaccia il quadro di riferimento è quello o e con questa realtà dobbiamo fare i conti.
Chi ce l’ha con Alfano perché fa da stampella a Renzi usa contro di lui armi polemiche sopra le righe, lo abbiamo capito da un pezzo.
Ma ci sono nelle e sotto le righe anche critiche più che giustificate che investono il Governo e non il solo Ministro dell’Interno e che riguardano una infinità di questioni pratiche, concrete, tecniche, quotidiane che viene affrontata con superficialità, pressapochismo e incompetenza quando di mezzo non c’è l’intrallazzo come si sta scoprendo a Mineo.
Stupisce che tutto questo non formi oggetto di una Conferenza tematica del Parlamento, del Governo, del PD o di qualche altra struttura o istituzione che dovrebbe gridare allo scandalo nazionale di fronte al mondo e all’intera comunità internazionale, molto più dello sciopero di Pompei, della metropolitana, della sporcizia e di Roma Capitale.
Perché Toti, in definitiva, è un provocatore che si fa interprete e portavoce di questo stupore e di questa lacuna, su cui lo Stato Italiano e le sue Istituzioni fanno le spallucce e girano la testa dall’altra parte.